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L’utilizzo del marchio altrui come keyword: violazione del marchio o opportunità per scelte più informate dei consumatori?

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Sarà capitato a tutti di cercare su internet un paio di scarpe da ginnastica, e non avendo le idee chiare riguardo alla marca o al modello, digitare semplicemente “Nike” nell’area di ricerca di Google Search. Una volta avviata la ricerca, nell’area dei risultati possono notarsi differenti risultati, taluni che rimandano al sito Nike, taluni che mostrano modelli di scarpe, e talaltri, affianco ai quali è presente un’icona con scritto “sponsorizzato”, che, invece, mostrano scarpe Adidas, o che rimandano al sito Asics.

La presenza di diverse tipologie di risultati deriva dal funzionamento sottostante ai motori di ricerca come Google Search, Bing o Yahoo. I risultati che non sono contraddistinti dalla scritta “sponsorizzato” sono i cosiddetti natural results, collegati alla parola ricercata tramite metatags, i secondi, invece, sono i link sponsorizzati, che vengono assegnati tramite programmi come Google AdWords. Grazie a Google AdWords, infatti, le aziende “acquistano” delle parole o stringhe di testo (keyword) in modo tale che, qualora vengano digitate da un utente, comportano la comparsa della pubblicità dell’azienda stessa. Nell’ambito di questo meccanismo, può accadere che le aziende acquistino come keyword il marchio di un concorrente[1], cosìcchè i loro prodotti appaiano ogniqualvolta un utente ricerca i prodotti del concorrente, come avvenuto nell’esempio descritto sopra con Adidas e Nike.

Proprio questa funzione dei motori di ricerca ha messo in crisi il funzionamento degli schemi tradizionali della tutela del marchio.

Difatti, la disciplina del marchio consente ai consumatori che preferiscono i prodotti di un’azienda, piuttosto che di un’altra, di essere sicuri che ogni volta che acquistano un determinato prodotto contraddistinto da quel marchio, il prodotto venga dalla stessa fonte, a prescindere da quando e dove lo abbiano acquistato.

Grazie ad internet, le aziende sono in grado di raggiungere facilmente consumatori anche molto distanti. I processi di selezione e acquisto del prodotto, infatti, sono divenuti molto più rapidi, basti pensare alla facilità con cui è possibile cercare, scegliere ed eventualmente acquistare prodotti in rete, tramite i motori di ricerca come Google Search.

Nell’ambito di internet, l’utilizzo del marchio in qualità di keyword ha fatto sorgere numerosi dubbi sulla possibile violazione dei diritti di marchio altrui. I primi ad occuparsene sono stati i giudici statunitensi, che hanno dovuto affrontare numerose problematiche nel tentativo di rispondere alle seguenti domande:

  1. Può parlarsi di utilizzo in ambito commerciale, come richiesto dalla normativa americana sui marchi per configurare una violazione, riguardo all’acquisto di una keyword?
  2. L’utilizzo di un marchio altrui come keyword può portare alla confusione del consumatore?
  3. È possibile provare la diluizione del marchio, qualora sia utilizzato come keyword?

Le difficoltà nel rispondere ai quesiti derivano dalle caratteristiche dell’ambiente on-line, che rendono arduo l’accostamento della nuova realtà con gli schemi tradizionali di valutazione circa la presenza o meno di una violazione del marchio. Infatti, alcuni elementi che caratterizzano il mondo on-line comportano l’impossibilità di applicare le regole tradizionali sui marchi al caso delle keywords. Innanzitutto, il primo elemento è la sofisticatezza dei consumatori: gli utenti di internet hanno sviluppato l’abilità di riconoscere i risultati dei motori di ricerca che siano rilevanti, rispetto a quelli che non lo sono; il secondo elemento è la cosiddetta banner blindness, ossia l’abitudine ad ignorare i banner pubblicitari. Da ultimo, deve considerarsi che il mercato online è caratterizzato da costi di passaggio (switching costs) molto bassi, che consentono di porre rimedio facilmente e velocemente ad ogni ipotesi di confusione.

Considerando i precedenti elementi, e con notevoli difficoltà, i giudici sono giunti ad affermare che l’utilizzo come keyword di un marchio rappresenta un utilizzo in ambito commerciale[2].

Tuttavia, per aversi una violazione del marchio, la disciplina richiede un elemento ulteriore: la confusione dei consumatori. Le corti sono giunte ad effettuare una distinzione. Innanzitutto, se un inserzionista utilizza una keyword per raggiungere consumatori fornendogli informazioni non confusionarie, non si assiste ad un caso di deviazione (diversion) dell’attenzione del consumatore. Un caso diverso si verifica, invece, se l’inserzionista acquista il marchio come keyword e, in aggiunta, lo utilizza o vi allude nel suo annuncio. Un simile uso fa insorgere nei consumatori l’idea che il suo prodotto sia autorizzato, o in qualche modo collegato al proprietario del marchio, dando vita ad un caso di confusione del cliente e, quindi, violazione del marchio[3].

Pertanto, il semplice uso del marchio di titolarità di terzi come keyword non deve essere considerato come una violazione, purché non implichi alcuna confusione o ingannevolezza dei consumatori.

In aggiunta, uno sguardo dev’essere rivolto alle potenzialità del sistema AdWords, che rappresenta altresì un mezzo per favorire scelte meglio informate da parte dei consumatori, dando loro la possibilità di concentrarsi non solo sul marchio di un prodotto, ma anche sulle sue qualità.

Percepire questo fenomeno esclusivamente come una violazione del marchio altrui comporterebbe una restrizione delle sue potenzialità. È vero, tuttavia, che la pubblicità basata su parole chiave, come molte altre attività basate su Internet, non essendo inquadrabile in una determinata tipologia di violazione del marchio, crea incertezze. A tali incertezze, in mancanza di indicazioni da parte del legislatore, la giurisprudenza preferisce approcciare in modo cauto, non consentendo, però, uno sfruttamento pieno dei nuovi strumenti.

 

[1] Prima del 2009 i marchi altrui non potevano essere utilizzati nei risultati sponsorizzati tramite Google AdWords e la società procedeva la rimozione dei link sponsorizzati nel caso di segnalazioni. Dal 2009, Google ne ha invece ammesso l’utilizzo, fintantoché costituisca “fair use”, un utilizzo corretto. Per ulteriori informazioni, Franklyn, Hyman, Trademarks as Search Engines: Much Ado About Something?, Harvard Journal of Law and Technology, 2013, vol. 26, n. 2

[2] Tuttavia, la dottrina si è espressa più volte in senso contrario.

[3] Saunders, Confusion is the key: a trademark law analysis of keyword banner advertising, Fordham Law Review, 2002, vol. 71, pages 101 – 131.

Lucrezia Berto

Classe 1992, piemontese di nascita ma milanese d’adozione, si laurea nel 2016 in giurisprudenza alla School of Law dell’Università Bocconi. Dopo l'inizio della carriera professionale negli Stati Uniti e la pratica forense presso uno dei principali studi legali milanesi, decide di seguire le sue passioni iscrivendosi all’LL.M in Law of Internet Technology dell’Università Bocconi. Attualmente vive in Spagna, a Barcellona, dove si occupa di consulenza in materia IP, IT e Data Protection a startup ad alto livello tecnologico. Appassionata di nuove tecnologie, proprietà intellettuale e big data, è un’amante dei viaggi e dello sport. Contatto: lucrezia.berto@iusinitinere.it

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