venerdì, Dicembre 20, 2024
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Legittima difesa e lotta al terrorismo: l’intervento USA in Afghanistan

A partire dagli anni sessanta in poi, soprattutto alla luce della dimensione assunta dalla crisi palestinese e della diffusa instabilità in Medio Oriente, il panorama internazionale ha visto moltiplicarsi le istanze volte all’invocazione della legittima difesa in risposta ad attacchi terroristici, in particolare da parte di USA e Israele, ossia i due Stati che nel corso degli anni hanno dovuto fronteggiare la maggior parte degli attacchi terroristici all’Occidente.

Le particolarità dell’uso della forza accompagnato da finalità terroristiche, tuttavia, fanno sorgere una serie di perplessità relative alla conformità delle reazioni alla luce della legittima difesa così come disciplinata dall’art. 51 della Carta ONU. In numerosi casi manifestatisi nella prassi antecedente all’ 11 Settembre, infatti, la legittima difesa è stata invocata a titolo di giustificazione di un intervento successivo ad un attacco terroristico. Tuttavia, nella quasi totalità di questi esempi si può constatare come, in realtà, l’intervento eccedesse la normale ratio difensiva e si connotasse di intenti perlopiù punitivi, tesi sì ad affermare il generale rigetto della Comunità Internazionale nei confronti del fenomeno terroristico, ma comunque non per questo conformi alla lettera dell’art. 51.

Uno dei problemi maggiormente rilevanti della questione deriva dalla natura non statuale assunta dalle organizzazioni terroristiche. In particolare, non avendo di fronte un attacco statale in tutto e per tutto, non sempre è semplice effettuare un collegamento puntuale tra la responsabilità del gruppo terroristico e quello dello Stato sul cui territorio il gruppo si ritrova ad operare e che, dunque, sarà necessariamente teatro dell’eventuale intervento difensivo.

Il punto di svolta in materia è sicuramente rappresentato dall’attentato alle Torri Gemelle dell’undici settembre 2001. In seguito a questo tragico evento tutte le cautele espresse dagli Stati e dalla dottrina circa la possibilità di poter reagire ad attacchi terroristici ai sensi dell’art. 51 furono letteralmente spazzate via dall’incredibile clamore che tale evento fu in grado di suscitare nell’opinione pubblica mondiale. Con tale azione si registrava una netta inversione di tendenza del fenomeno terroristico. Fino ad allora, infatti, esso era sempre stato legato perlopiù a movimenti di liberazione nazionale ed aveva avuto una connotazione marcatamente territoriale, mentre con l’attentato alle Torri Gemelle si faceva portatore di un generale attacco al cuore del mondo occidentale. Difatti a far sorgere la necessità di apportare delle risposte diverse al problema fu la stessa natura dell’attacco, che per proporzioni e difficoltà organizzative, non poteva essere paragonato nella maniera più assoluta a nessun caso precedente.

Da un esame della successiva operazione Enduring Freedom posta in essere da USA e Regno Unito, con l’appoggio di altri Stati, nei confronti del regime dei talebani in Afghanistan emergono una serie di criticità relative al possibile inquadramento dell’operazione in termini di legittima difesa.

Tale operazione, costituì la risposta decisa con la quale gli USA reagirono ai tragici eventi; ritenendo sussistente il sostanziale coinvolgimento del regime dei talebani con le operazioni poste in essere dall’organizzazione terroristica Al-Qaeda, intervennero a sostegno dell’Alleanza del Nord, un gruppo costituito da vari signori della guerra che resisteva strenuamente al regime. All’intervento USA, condotto principalmente tramite feroci bombardamenti, seguì la liberazione della roccaforti del regime, Kabul e Kandahar, e costrinse i talebani ad una rapida ritirata sui monti al confine con il Pakistan, laddove sono tuttora presenti.

Tuttavia sulla liceità di tale operazione alla luce del disposto dell’art. 51 si sono registrate opinioni divergenti, in particolare è stato affermato che un’estensione siffatta costituirebbe un espediente per giustificare un illegittimo ampliamento della possibilità di usare la forza armata, dato che l’intervento ex art. 51 presupporrebbe in primo luogo l’utilizzo di forze militari da parte di uno Stato, ed in secondo luogo, una reazione immediata e diretta a respingere l’aggressione, mentre l’operazione Enduring Freedom sembra perlopiù caratterizzata da finalità deterrenti e punitive.

Il punto di maggiore criticità, tuttavia, è rappresentato dalla possibilità di attribuire la responsabilità degli attentati al regime dei talebani, e, dunque, all’Afghanistan. Infatti, in base all’interpretazione tradizionale, avvalorata da una costante giurisprudenza della CIG, sia il divieto dell’uso della forza, che la sua eccezione costituita dalla legittima difesa, possono trovare applicazione soltanto in riferimento ai rapporti interstatali. Ne deriva che l’uso della forza in legittima difesa può essere consentito ad uno Stato soltanto qualora abbia subito un’aggressione armata da parte di un altro Stato. Di qui la necessità di instaurare un collegamento tra l’organizzazione terroristica di Al-Qaeda, facente capo ad Osama Bin Laden, e il regime dei talebani, che, dopo sanguinose lotte di potere, all’epoca deteneva saldamente il potere in Afghanistan.

Quanto alla sussistenza del legame intercorrente tra i due gruppi, tuttavia, non vi era universalità di vedute. I fautori dell’esistenza dei criteri di attribuzione affermavano perlopiù che vi fosse stata una forte collaborazione tra i talebani ed Al-Qaeda nel contesto delle operazioni di guerriglia interna effettuate nei confronti dell’Alleanza del Nord, un gruppo formato da vari signori della guerra che si opponevano al regime nella zona del Panshir. Considerando, dunque, l’organizzazione di Bin Laden come un organo posto al vertice dell’apparato organizzativo talebano, è possibile ricondurre gli attentati alle Twin Towers nell’ambito dell’attacco indiretto ai sensi dell’art. 3 lett. g della Dichiarazione sull’aggressione del 1974 (il quale elenca, tra gli atti di aggressione, non soltanto l’invio da parte o per conto di uno Stato di bande armate, forze irregolari o mercenari, ma anche il sostanziale coinvolgimento di detto Stato in tali atti), potendo in tal modo giustificare la possibile reazione nei limiti della legittima difesa. Anche la stessa tesi proposta dagli USA fa riferimento alla definizione di aggressione ex art. 3 della Dichiarazione. Essa infatti, valuta la possibilità di attribuire gli attentati al Afghanistan in virtù del substantial involment del governo talebano nella commissione degli stessi.

Tuttavia anche in questo caso il requisito posto alla base della configurazione dell’attacco armato indiretto viene interpretato in una chiave di lettura diversa rispetto all’interpretazione tradizionale datane dalla Corte Internazionale di Giustizia. Infatti, per la tesi statunitense, in relazione al caso di specie, basterebbe la semplice messa a disposizione del territorio statale all’organizzazione terroristica per poter configurare il substantial involment e quindi la responsabilità dell’Afghanistan per gli attentati. In realtà, una simile chiave di lettura contrasta in modo netto le conclusioni della Corte sul tema dell’attacco armato indiretto.

Infatti sin dal caso Nicaragua, per l’attribuzione della responsabilità delle azioni poste in essere da bande armate ad uno Stato, era necessario verificare la sussistenza del requisito del “controllo effettivo”, in base al quale il collegamento può dirsi sussistente soltanto quando lo Stato abbia la capacità di poter imporre a tali soggetti la perpetrazione di determinati atti.

Da questa prospettiva dunque, risulta evidente come la semplice messa a disposizione del territorio da parte del regime dei talebani non sia sufficiente a poter costituire il collegamento necessario ai sensi dell’interpretazione tradizionale dell’art.3 lett. g della Dichiarazione.

In conclusione è possibile affermare che l’attribuzione delle responsabilità degli attentati al regime dei talebani sembra dettato piuttosto che da ragioni giuridiche dalla necessità di inquadrare la reazione unilaterale nell’ottica della legittima difesa in virtù della sua posizione strategica quale unica eccezione al divieto dell’uso della forza da parte degli Stati.

Emergono con chiarezza, tuttavia le enormi difficoltà legate all’adattamento di una disciplina pensata per gli Stati in un ambito che si presenta come extra statuale.

Questi interrogativi investono l’attuale evoluzione del diritto internazionale e la sua tendenza a configurarsi come diritto di una comunità universale. Le istanze nascenti dalla necessità, sempre più sentita, di favorire l’ingresso di soggetti non statali nell’ottica del diritto internazionale, riflettono il momento di transizione di quest ultimo, in una fase che vede il passaggio dalla classica Comunità intestatale, ad una comunità globale, che sia sempre più attenta ai valori tutelanti l’uomo e l’intera umanità.

Dott. Salvatore Viglione

Nato a napoli nel 1991, vive a Melito di Napoli. Ha conseguito la laurea in giurisprudenza presso la Federico II di Napoli nel luglio 2016 con tesi in diritto internazionale. Attualmente oltre a frequentare la Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali, svolge il tirocinio forense presso lo Studio Legale Mancini, specializzato in diritto penale. Ha collaborato con diverse testate editoriali, principalmente con articoli di cronaca locale e politica. Ama il calcio, anche dilettantistico e la scrittura.

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