L’associazione per delinquere di tipo mafioso
Originariamente, il codice penale disciplinava solo un’associazione per delinquere “semplice”, caratterizzata da una serie tassativa di elementi tipici: un vincolo associativo tendenzialmente stabile e permanente, destinato a perdurare anche oltre la realizzazione dei reati programmati; una (seppur minima) struttura organizzativa; l’indeterminatezza del disegno criminoso.
Onde consentire di estendere la punibilità anche a condotte delittuose che non rientrassero strictu sensu entro questi parametri, ed altresì allo scopo di evidenziare “simbolicamente” il particolare disvalore della criminalità mafiosa come fenomeno autonomo ed a sé stante, il legislatore ordinario è, pertanto, intervenuto nel 1992, introducendo l’art. 416-bis c.p., rubricato «Associazione per delinquere di tipo mafioso».
Dal punto di vista dell’elemento soggettivo, il reato de quo esige sia la cd. affectio societatis, ovvero la consapevolezza di aver assunto il vincolo sodale con la coscienza delle caratteristiche e delle finalità dell’organizzazione, sia il dolo specifico, essendo sufficiente, in tal senso, che gli obiettivi associativi rappresentino lo scopo in virtù del quale la consorteria si è costituita ed opera, a prescindere dalla loro materiale concretizzazione.
Oltre ad un differente e più afflittivo regime sanzionatorio (il semplice partecipe è «punito con la reclusione da sette a dodici anni»; i promotori, gli organizzatori e i capi «sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da nove a quattordici anni»), sono tre le caratteristiche tipiche peculiari dell’istituto.
Anzitutto, la riforma ha posto l’accento più sul modus agendi che su quello essendi del sodalizio, motivo per cui non vi è alcun esplicito riferimento ad un parametro strutturale (la necessità di un’organizzazione è data per scontata).
In secondo luogo, l’associazione mafiosa non si prefigge come obiettivo precipuo la commissione di una serie indeterminata di delitti, ben potendo essere costituita col fine di acquisire potere o di ricavare profitti economici o vantaggi ingiusti per sé o per altri, anche in assenza delle condotte tipiche di minaccia o violenza configurate dal codice.
Il terzo (e principale) tratto distintivo della fattispecie in analisi è rappresentato dall’utilizzo del cd. metodo mafioso, minuziosamente descritto sia in riferimento ai fini perseguiti, che ai mezzi impiegati per il loro raggiungimento.
Partendo dai primi, la norma si riferisce ad un consorzio che si adoperi «per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti o servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali». Tali propositi devono considerarsi alternativi tra loro, nel senso che gli estremi del reato saranno integrati con la consumazione anche di una sola di queste condotte, ed ovviamente il delitto resterà unico pure in presenza di più obiettivi programmati.
Questa meticolosità espositiva traduce, a ben vedere, lo sforzo del legislatore di caratterizzare, nella maniera più dettagliata possibile, il nuovo volto “imprenditoriale” assunto dalla criminalità organizzata, al giorno d’oggi divenuta estremamente perita nel reinvestire il denaro sporco in attività economico-produttive lecite o paralecite. Per la prima volta, dunque, tra gli scopi associativi sono stati annoverati anche quelli di per sé non illeciti, ma che lo diventano in ragione del metodo mafioso utilizzato per realizzarli: la tipicità della struttura si coglie proprio in riferimento a queste sue concrete modalità di manifestazione, e non soltanto guardando alle finalità che l’associazione persegue.
Per quanto riguarda poi il profilo “strumentale”, la norma richiede che sussistano particolari presupposti sia dal lato attivo che da quello passivo dell’azione.
Dal lato attivo, quello del mafioso-agente, il codice pretende che questi si avvalga della «forza di intimidazione del vincolo associativo». La dottrina dominante interpreta siffatta espressione nel senso che non occorra necessariamente il compimento di concreti atti intimidatori da parte degli associati, ma che basti anche solo la “fama criminale” da questi guadagnata, unitamente alla consapevolezza, in capo alle potenziali vittime, che tali malviventi anche in futuro continueranno verosimilmente a ricorrere alla violenza per conseguire i propri intenti.
Dal lato passivo, ossia quello dei terzi offesi, estranei al sodalizio, la novella presuppone una «condizione di assoggettamento e di omertà» derivante dall’uso della suddetta forza intimidatrice, intesa come un vero e proprio stato di dipendenza psicologica, tale da imporre al soggetto passivo comportamenti non voluti, giustificati dalla paura di subire ritorsioni.
L’ultimo comma dell’art. 416-bis c.p. estende, infine, l’applicabilità della disciplina anche «alla camorra, alla ‘ndrangheta e alle altre associazioni, comunque localmente denominate, che, valendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo, perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso».
Sono previste come circostanze aggravanti la disponibilità di armi o materiali esplodenti e il finanziamento di attività economiche avvalendosi del prezzo, del prodotto o del profitto di delitti, ecc. È altresì disposta come pena accessoria la confisca obbligatoria di tutte le cose pertinenti al reato.
Francesco Tuccillo, napoletano, classe 1992. Appassionato di musica e amante dei viaggi. Laureato in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II, ha dapprima iniziato la pratica forense presso lo Studio Legale di famiglia, specializzato in diritto civile e bancario, per poi affiancarvi successivamente anche quella penale presso uno Studio perito di colpa medica, frodi assicurative e diritto penale economico latamente inteso. Socio di ELSA Napoli, ha partecipato a due Legal Research Group, nei quali ha approfondito i temi «Adempimento di un dovere e favoreggiamento personale: è punibile il medico che opera a domicilio un latitante?» e «La responsabilità penale del notaio». Collabora da giugno con la testata online “ildenaro.it”, quale coautore della rubrica “Ius in itinere”, per la quale ha pubblicato articoli di diritto commerciale, penale, civile e dell’Unione Europea. Collabora con la V cattedra di “Diritto Penale. Parte generale” presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II.