L’ applicazione dell’art. 6, par. 1 , della Cedu al processo tributario
La progressiva e crescente rilevanza in materia tributaria della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e ratificata dall’Italia con la legge del 4 agosto 1955 n. 848, ha notevolmente indirizzato gli orientamenti giurisprudenziali della Corte Europea dei diritti dell’uomo nell’ultimo ventennio.
La disamina si incentrerà sul ben noto art 6., par. 1, della CEDU in tema di garanzie processuali e di ragionevole durata del processo in materia tributaria, analizzato alla luce delle pronunce più rilevanti della Corte Europea dei diritti dell’uomo e della Corte di Cassazione.
Il tema della compatibilità tra l’assetto ordinamentale della giustizia tributaria italiana e l’equo processo definito dall’art. 6 della Cedu richiede una riflessione sull’applicabilità della norma al settore dei tributi ed al processo tributario.
L’art. 6 della CEDU attribuisce ad ogni persona «il diritto ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti a un tribunale indipendente e imparziale costituito per legge, al fine della determinazione sia dei suoi diritti e dei suoi doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta».
Dal richiamo esplicito ai «diritti e doveri di carattere civile» ed all’«accusa penale» la Corte europea dei diritti dell’uomo ha tratto la conclusione dell’inapplicabilità della norma alle liti tributarie, vertendo esse su obbligazioni che, seppure di contenuto patrimoniale, attengono a doveri civici imposti in una società democratica (cfr. Schouten e Meldroun c. Paesi Bassi del 9 dicembre 1994 ).
Il concetto si trova ribadito in due successive importanti decisioni della stessa Corte, entrambe relative al sistema tributario italiano ( Ferrazzini e Faccio).
Tralasciando il riferimento alle “ accuse penali”- che in ambito tributario ha assunto rilievo in relazione alle sanzioni amministrative- non può trascurarsi l’orientamento negativo espresso dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo in merito alla possibilità di ricomprendere i giudizi tributari tra le “ controversie di carattere civile”.
Ci si riferisce alla ben nota sentenza Ferrazzini del 12 luglio 2001, in cui i Giudici di Strasburgo, facendo leva sul dato letterale e pur riconoscendo che “un procedimento tributario ha indubbiamente un oggetto patrimoniale”, hanno ribadito che “ possono esistere delle obbligazioni patrimoniali” nei confronti dello Stato e dei suoi organi che, ai fini dell’art. 6, paragrafo 1, devono essere considerate come rientranti esclusivamente nell’ambito del diritto pubblico e , di conseguenza, non afferenti alla nozione di “diritti ed obbligazioni di carattere civile”.
In questo senso, ha specificato la Corte, “ la materia fiscale rientra ancora nell’ambito delle prerogative del potere d’imperio, poiché rimane predominante la natura pubblica del rapporto tra contribuente e la collettività”.
Il medesimo argomento viene richiamato nella sentenza 31 marzo 2009, Faccio c. Italia, per dichiarare irricevibile il ricorso di un contribuente contro l’apposizione coattiva dei sigilli all’apparecchio televisivo per mancato pagamento del canone, fondato sulla violazione degli artt. 8 e 10 della CEDU. Sulla scorta di tale orientamento negativo, nel 2004 la Corte di cassazione ha negato l’operatività al processo tributario della legge 24 marzo 2001 n. 89 (c.d. “legge Pinto”, sulla violazione del termine massimo di durata del processo) .
Nel tempo, tuttavia, una così rigida applicazione della norma ha subìto un’importante deroga.
Ed invero, con sentenza 23 novembre 2006, Jussila c. Finlandia, la Corte di Strasburgo ha ritenuto che, quando un processo tributario ha ad oggetto la legittimità di una sanzione che, pur non qualificata come penale, in concreto non assolve ad una funzione compensativa del danno prodotto, ma assume una valenza punitiva, oltre che deterrente, esso deve rispettare i precetti dell’art. 6 della CEDU e, nella fattispecie, l’obbligo della pubblica udienza.
Successivamente, con sentenza 21 febbraio 2008, Ravon c. Francia, la stessa Corte ha dichiarato il contrasto tra l’art. 6 ed una disposizione interna che abilita l’amministrazione fiscale ad eseguire atti di ispezione domiciliare, in assenza di un controllo giurisdizionale effettivo.
Queste due decisioni non rappresentano un ribaltamento dell’impostazione di fondo, dato che non pongono in discussione il fatto che l’art. 6 valga solo in ambito civile e penale.
Nondimeno, esse appaiono rilevanti perché offrono all’interprete la possibilità di equiparare il processo tributario a quello penale, agli effetti della tutela ex art. 6, ogniqualvolta si contesti l’irrogazione di una sanzione che, per natura e gravità, appartiene in generale al campo penale; e ciò quale che sia la qualificazione della sanzione ad opera del diritto interno .
In altre parole, l’art. 6 della CEDU, che la Corte di Strasburgo aveva estromesso dalla materia fiscale attraverso la “porta” dei «diritti e doveri di carattere civile», è rientrato dalla “finestra” dell’«accusa penale».
Sul primo punto può dunque concludersi nel senso che l’art. 6 della CEDU costituisce un parametro di legalità che il legislatore ed giudice tributario devono rispettare tutte le volte in cui sia in discussione una sanzione particolarmente afflittiva comminata dall’amministrazione fiscale.
La salvaguardia offerta dall’art. 6 della CEDU è duplice: 1) sul versante oggettivo (cioè, del processo), essa si sostanzia nel diritto ad un’udienza equa e pubblica, da celebrarsi entro un termine ragionevole; 2) sul versante soggettivo (cioè, del giudice), essa richiede l’indipendenza, l’imparzialità e la precostituzione per legge del soggetto giudicante.
Una di queste riguarda l’estensione, anche al processo tributario, della disciplina sull’equa riparazione di cui alla legge n. 89/2001, che – dopo il diniego opposto nel 2004 – è stata oggetto di ripensamento da parte della Corte di cassazione ( Sent. 24 gennaio 2007, n. 1540 ), che l’ha affermata, seppur attraverso il richiamo al testo novellato dell’art. 111 Cost., inteso come disposizione che si rivolge sì al giudice ed alle parti del processo, ma anche e soprattutto al legislatore ordinario, il quale è obbligato a porre in essere tutte le misure necessarie per assicurare che il processo si svolga in tempi ragionevoli.
Orientando l’analisi verso il principio della durata ragionevole del processo, deve ritenersi che, nonostante qualche timido tentativo (si pensi alla disciplina volta a consentire la definizione accelerata delle liti di ultradecennale pendenza), esso resta ancora in larga parte inattuato nei giudizi tributari.
Sul piano interno, la Corte di Cassazione, pur ritenendo inapplicabili le disposizioni in materia di equa riparazione di cui alla legge 89 del 2001, ha affermato che il principio costituzionale di ragionevole durata si applica anche nel processo tributario, rivolgendosi al legislatore ordinario nell’adozione di adeguati strumenti normativi ed al giudice nell’interpretazione delle norme processuali ed in funzione acceleratoria.
La Cassazione ha aperto alcuni spiragli ammettendo che la legge Pinto possa trovare applicazione anche per i giudizi di ottemperanza davanti alle Commissioni tributarie in quanto riguardanti pretese civili del contribuente che non investono la determinazione del tributo (Cass. 15 luglio 2008, n. 19367), ovvero quelli riguardanti crediti di imposta non contestati nella loro esistenza (Cass. 7 marzo 2007, n. 5275.) o rimborsi di imposte indebitamente pagate (Cass. 1° dicembre 2005, n. 26211).
La stessa Corte Costituzionale, con sentenza 27 febbraio 2009, n. 58, ha ripetutamente invitato il legislatore ordinario ad adottare tutti provvedimenti idonei a garantire la celerità dei processi, proprio traendo argomenti dalla premessa che il principio della durata ragionevole si estenda a qualunque tipo di giudizio, sia ordinario che speciale.
Tuttavia, le limitazioni applicative della Legge Pinto al processo tributario sono state ribadite con sentenza 24 settembre 2012,n. 16212 dalla Suprema Corte , che afferma essere meritevoli di tutela i diritti ed i doveri di “carattere civile” di ogni persona, non le obbligazioni di natura pubblicistica, pur potendo applicare la legge n. 89/2001 alle richieste di rimborso di somme, rifluenti nell’area delle obbligazioni privatistiche, o anche le pretese tributarie dell’amministrazione qualora siano connesse a sanzioni, che in questo caso sono suscettibili di rientrare nella seconda parte del paragrafo 1 dell’art. 6 della Convenzione».
Da ultimo, la Cassazione, con sentenza n. 4282 del 3.3.2015, ha affermato che la cosiddetta Legge Pinto, che prevede l’indennizzo per l’irragionevole durata del processo, non si applica nel caso di giudizio tributario, salvo che la controversia non verta sulle sanzioni fiscali.
La Corte ha chiarito che la disciplina sull’indennizzo da 500 euro a 1500 euro per mancato rispetto della ragionevole della durata del processo ( termine 3 anni per il primo, 2 per l’appello e 1 per la Cassazione) non è applicabile ai giudizi in materia tributaria riguardanti la potestà impositiva dello Stato, stante l’estraneità e l’irriducibilità di tali vertenze al quadro di riferimento della legge.
Fanno eccezione solo le cause riguardanti sanzioni tributarie assimilabili a sanzioni penali per il loro carattere afflittivo, che sia a tal punto significativo da farle apparire alternative a una sanzione penale ;e quelle che ,pur essendo riservate alla giurisdizione tributaria, sono riferibili alla “materia civile“, in quanto riguardanti pretese del contribuente che non investano la determinazione del tributo ma solo aspetti consequenziali.
L’ intervento della Cassazione merita di essere ripensato poiché la CEDU è stata firmata nel remoto 1950 e ,pertanto, solo in tale occasione venne prevista la risarcibilità laddove si controvertesse di diritti e doveri di carattere civile e di “ accuse penali”.
Solo con l’art 2 del dlgs n. 546 del 1992 sono state attribuite alla giurisdizione tributaria tutte le controversie aventi ad oggetto tributi di ogni specie e genere, comunque denominati.
Ora è evidente che il riparto di giurisdizione nulla ha a che vedere con il concetto di obbligazione e con il soggetto attivo e/o passivo della stessa, pubblico o privato.
In sintesi, anche per le obbligazioni “pubbliche” sarebbe irragionevole non riconoscere l’applicazione dell’art. 6, par. 1, della CEDU.
Infine, dirimente è la circostanza che né il legislatore nazionale né quello europeo abbiano escluso la risarcibilità del danno per tale procedimento e che anzi gli stessi abbiano voluto sanzionare l’irragionevole durata del processo.