Ambiente: l’Accordo di Parigi tra critiche e speranze
“Il presente Accordo mira a rafforzare la risposta globale alla minaccia dei cambiamenti climatici, nel contesto dello sviluppo sostenibile e degli sforzi volti a sradicare la povertà”. L’articolo 2 dell’Accordo di Parigi centra l’obiettivo che la convenzione internazionale, entrata in vigore lo scorso 4 novembre, si prefigge di raggiungere all’esito dei negoziati che hanno permesso la sua adozione.
L’accordo è frutto dei lavori della Conferenza di Parigi sui cambiamenti climatici, la COP 21 che si è tenuta a Parigi dal 30 novembre al 12 dicembre del 2015, e che ha rappresentato la 21ª sessione annuale della conferenza delle parti della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici e l’11ª sessione della riunione delle parti del Protocollo di Kyoto del 1997.
La lotta al cambiamento climatico e al surriscaldamento globale è il fine a cui si spera miri concretamente l’azione dei 197 paesi che hanno aderito all’Accordo, il cui operato nel rispetto di quanto stabilito dalla Convenzione sarà sottoposto al controllo del primo “bilancio globale” che si terrà nel 2023. L’articolo 2 stabilisce inoltre la necessità di :
* Mantenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto di 2 °C rispetto ai livelli preindustriali, e proseguire l’azione volta a limitare l’aumento di temperatura a 1,5° C rispetto ai livelli pre-industriali, riconoscendo che ciò potrebbe ridurre in modo significativo i rischi e gli effetti dei cambiamenti climatici;
* Aumentare la capacità di adattamento agli effetti negativi dei cambiamenti climatici e promuovere lo sviluppo resiliente al clima e a basse emissioni di gas ad effetto serra, di modo che non minacci la produzione alimentare;
* rendere i flussi finanziari coerenti con un percorso che conduca a uno sviluppo a basse emissioni di gas ad effetto serra e resiliente al clima.
Un obiettivo ambizioso che la comunità internazionale si prefigge di raggiungere dopo che la Conferenza di Copenhagen del 2009 non ha portato i risultati sperati, a causa dello scarso consenso che stavolta non è però mancato, essendo parti dell’accordo anche i tre più grandi inquinatori, ovvero Cina, India e Stati Uniti. Timori circa il mancato rispetto dell’accordo si nutrono verso gli Stati Uniti, dopo che il Presidente Donald Trump ha smantellato il Clean Power Plan di Obama, promuovendo l’Energy Independence e il ritorno ai combustibili fossili.
A discapito dei timori circa la sua attuazione l’accordo distingue l’azione dei paesi sviluppati da quella dei paesi in via di sviluppo. Ai primi è affidato il ruolo guida, dovendo prefissare obiettivi assoluti volti a ridurre le emissioni relative a tutti i settori dell’economia e sono inoltre incoraggiati a intraprendere azioni volte a ridurre le emissioni tenendo conto delle diverse circostanze nazionali. Svolgono inoltre un importante ruolo di cooperazione verso i paesi in via di sviluppo, ai quali destineranno risorse finanziarie per permettere di adeguare la loro azione agli obiettivi prefissati dall’accordo, rendendo grazie a questo sostegno i loro progetti e le loro azioni maggiormente ambiziose.
Sono inoltre previsti Fondi per l’energia pulita, in quanto i paesi di vecchia industrializzazione erogheranno cento miliardi all’anno a partire dal 2020 per diffondere in tutto il mondo le tecnologie verdi e decarbonizzare l’economia, potendo contare anche sui contributi di investitori privati.
L’operato degli stati sarà sottoposto al controllo della Conferenza delle parti che verificherà ogni cinque anni i progressi collettivi tenendo conto dell’equità e delle conoscenze scientifiche a disposizione delle parti. Il primo bilancio globale si terrà nel 2023, decisione che ha suscitato non poche critiche da parte di scienziati e ambientalisti. Rappresenta un controsenso auspicare la riduzione delle emissioni, se il primo controllo è previsto a così lunga scadenza, potendo in questo ampio lasso di tempo aumentare l’inquinamento, rendendo gli obiettivi dell’accordo un’irraggiungibile chimera. Inoltre le pressioni di produttori di petrolio e gas hanno fatto si che non si specificasse una data per decarbonizzare l’economia, e dunque ancora una volta i lodevoli propositi previsti dall’accordo potrebbero rimanere solo sulla carta.
La Conferenza delle parti controllerà anche il Meccanismo internazionale di Varsavia loss and damage varato dalla COP19 di Varsavia in merito al risarcimento dei danni per le vittime degli effetti del cambiamento climatico. Attraverso il rispetto del Meccanismo le parti si impegnano infatti ad adottare misure volte a sostenere le vittime dei danni tramite la previsione di sistemi di allerta precoce e preparazione alle emergenze.
Il 4 novembre è stata da molti definita una data storica, un momento epocale in un epoca in cui le politiche ambientaliste devono tradursi in azioni incisive, volte ad arginare i danni causati negli ultimi anni dall’inquinamento globale. Danni che non possono più essere trascurati, nonostante la politica di alcuni stati sia indirizzata più alla crescita economica che al rispetto del pianeta. La Cina, che rivendica il suo status di paese in via di sviluppo, è uno tra i più grandi produttori di gas serra e si è opposta al controllo degli organismi internazionali sul rispetto dell’accordo, ottenendo che i controlli siano autocertificati. L’elezione di Donald Trump ha fatto si che gli Stati Uniti attuassero un cambio di rotta in politica ambientale, promuovendo trivellazioni, incremento della produzione di carbone e maggiore libertà per le industrie circa i meccanismi da adottare nel rispetto ambientale. Di recente inoltre venti eurodeputati capitanati dal parlamentare dell’Ukip Roger Helmer, hanno firmato un appello indirizzato a Donald Trump con la richiesta di cestinare l’accordo di Parigi auspicando che anche l’Europa faccia un passo indietro.
Ai leader politici l’Accordo richiede impegno collettivo per realizzare una crescita sostenibile e bilanciata, tramite l’adozione di riforme strutturali e politiche fiscali volte a sostenere la “green finance”, ma solo nel corso dei prossimi tre anni sarà possibile verificare se l’operato della comunità internazionale sia effettivamente indirizzato al rispetto degli obblighi assunti tramite l’accordo.
Anna Giusti studia Giurisprudenza presso l’Università di Napoli Federico II. Attualmente svolge un tirocinio presso il Consolato Generale degli Stati Uniti di Napoli. La collaborazione con Ius in itinere nasce dalla volontà di coniugare la sua grande passione per la scrittura al percorso di studi. Collaborare per l’area di diritto internazionale le permette di approfondire le tematiche che hanno da sempre suscitato maggiore interesse in lei, ovvero il diritto internazionale penale, la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti umani, il diritto dell’Unione Europea. Appassionata di viaggi, culture e letterature straniere, si è da sempre dedicata allo studio dell’inglese e del francese.