18 Novembre 2025
18 Novembre 2025

Utero in affitto: incertezze giurisprudenziali della Corte EDU

Il caso “Paradiso e Campanelli c. Italia” è emblematico per le difficoltà giurisprudenziali di affermazione di un indirizzo univoco in tema di gestazione surrogata (c.d. “utero in affitto”), in particolare quando non vi è alcun legame biologico tra il minore e la coppia dei “presunti” genitori.

Il 24 gennaio 2017, infatti, la Grande Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo (“Corte EDU”) ha annullato, con sentenza, la condanna all’Italia, inflitta nel 2015 dalla Camera della Corte di Strasburgo, per la violazione dell’art.8 (“Diritto al rispetto della vita privata e familiare”) della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (“CEDU”).

Premessa della controversia è la decisione di una coppia di coniugi di ricorrere ad una gestazione tramite un soggetto femminile terzo, la quale avrebbe così partorito un figlio per conto della coppia, vista la loro impossibilità di procrearne uno.

Considerata l’illegittimità della pratica in Italia, i coniugi decisero di andare in Russia, dove la legge federale permette, a determinate condizioni, il trattamento sanitario dell’“utero in affitto”. Una volta portato, però, il figlio in Italia, la coppia si vedeva rifiutare la trascrizione del certificato russo di nascita del bambino nei registri dello stato civile italiano, per falsità dei dati contenuti nello stesso, in quanto riportante alla voce “genitori” le generalità dei due coniugi, non sussistendo alcun legame biologico con il minore. Successivamente il bambino veniva allontanato dai due, in quanto, secondo il Tribunale per i minorenni di Campobasso, in “stato di abbandono”, cioè senza genitori, non essendo il caso inquadrabile come quello di una maternità surrogata, vista la mancanza di un legame biologico con almeno uno dei due, ma piuttosto come quello di una adozione internazionale in violazione della legge italiana. Veniva così aperto un procedimento di adozione per il bimbo, ritenuto non contrario all’interesse superiore del minore in quanto non eccessivamente traumatico per lo stesso,  considerando l’età e il poco tempo trascorso con la coppia di coniugi.

I tentativi di ricorso alla giustizia italiana da parte della coppia si rivelarono infruttuosi. La Corte d’appello di Campobasso rigettò definitivamente le loro richieste, ritenendo legittimo il rifiuto da parte dell’autorità amministrativa della trascrizione di un atto di nascita “ideologicamente falso” e, di conseguenza, anche l’allontanamento del minore. I coniugi decisero, così, di presentare ricorso (n. 25358/12) alla Corte EDU denunciando la violazione dell’art.8 della CEDU, cioè una violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare. Diritto che si concretizza nel divieto di ingerenza da parte dell’autorità pubblica nella vita privata e familiare, se non nei casi espressamente previsti dalla legge e in virtù di determinate motivazioni, fra cui “la protezione dei diritti e delle libertà altrui”.

I due, in più, ricorsero alla Corte anche in nome del minore, ma la Corte negò loro tale qualità di agire, così il bambino restò estraneo al giudizio.

Per quanto riguarda la violazione dell’art.8 della CEDU, la Corte ritenne necessario preliminarmente accertare, per l’applicabilità della norma, l’esistenza, nel caso specifico, di una “vita familiare”, accertamento ricondotto dalla Camera ad una questione di fatto, dipendente dalla sussistenza di legami personali stretti fra  i presunti genitori e il minore.  In questo modo venne riconosciuta l’esistenza di una vita familiare “de facto”, malgrado l’assenza di un rapporto di parentela.

Dopo aver, quindi, affermato, astrattamente, la possibilità di applicazione dell’art.8 della CEDU alla situazione, la Camera si soffermò sulla valutazione del comportamento dell’autorità italiana alla luce dei requisiti richiesti per l’ingerenza legittima di cui all’art.8 par 2.

La prima condizione, cioè che il comportamento sia conforme a legge, era ritenuta soddisfatta, in quanto la nazionalità sconosciuta del bambino permetteva l’applicazione della legge italiana, non ricadendo nella disciplina della convenzione dell’Aja del ’93 per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale, che avrebbe comportato l’applicazione della legge russa. La seconda condizione, cioè l’esistenza di uno scopo legittimo, era ritenuta ugualmente soddisfatta, poiché il rifiuto della trascrizione e il conseguente allontanamento del minore avrebbero risposto ad esigenze di ordine pubblico interno.

Il problema, secondo la Camera, era la non soddisfazione della terza condizione, cioè la necessità del comportamento dell’autorità in quanto la stessa non avrebbe garantito il giusto equilibrio fra interesse pubblico e interessi privati in gioco, fra cui quello prevalente del minore.

In particolare, il giudizio di non adeguatezza del contesto familiare per il minore sarebbe derivato unicamente da considerazioni attinenti l’origine illegale della situazione e non dall’esistenza di “un pericolo immediato”, richiesto per la legittimità dell’allontanamento del bambino dal nucleo familiare, e, quindi, sacrificando l’interesse del minore.

Di conseguenza, la Camera riconobbe la violazione dell’art.8 della CEDU e condannava l’Italia ad un risarcimento pecuniario, nell’impossibilità di restituire il bambino alla coppia, vista l’ormai convivenza con la nuova famiglia di adozione.

Il giudizio è stato, però, due anni dopo, rovesciato dalla Grande Camera, dopo l’impugnazione della sentenza da parte dello Stato italiano.

Quest’ultima, infatti, partendo dalle stesse premesse di applicabilità dell’art.8 della CEDU, nega che nel caso si possa parlare di “vita familiare de facto” a causa della coabitazione di durata troppo breve e della precarietà del legame giuridico con il bambino provocata dagli stessi ricorrenti, consapevoli di essersi posti, fin dall’inizio, in maniera contraria alle leggi italiane. Riconoscere, nel caso concreto, una famiglia di fatto, per la Grande Chambre, equivale ad allargare eccessivamente la nozione di famiglia fino a ricomprendervi qualsiasi tipo di situazione caratterizzata dall’esistenza di legami personali. In assenza, quindi, della vita familiare, un’ipotetica violazione all’art.8 della CEDU potrebbe essere valutata dalla Corte solo dal punto di vista, più ristretto, di una violazione alla libertà privata dei soggetti.

Secondo la Grande Camera sarebbero soddisfatti tutti i requisiti per un’ingerenza legittima nella vita privata, in quanto l’allontanamento da parte dello Stato è diretto a trovare una sistemazione al minore mediante il sistema dell’adozione e in quanto gli interessi generali prevarrebbero sull’interesse privato alla salvaguardia della vita privata dei ricorrenti.

Con sentenza, quindi, è annullata la condanna precedentemente inflitta all’Italia.

Come si evince chiaramente, la Corte si è cimentata in un revirement interpretativo, ritenendo non sussistente la vita familiare, così da poter ritenere legittimo il comportamento dello Stato italiano, essendo intaccata solo la vita privata dei ricorrenti, non la vita familiare degli stessi. Al di là del merito e di eventuali osservazioni riguardanti queste due contrapposte interpretazioni, emerge dalla vicenda una pericolosa incertezza giurisprudenziale, in particolare nella delimitazione della nozione di “famiglia”, rischiosa di compromettere la salvaguardia dell’interesse superiore del minore. E’ il caso di dire, con una provocazione, che quest’ultimo risulta, nella fattispecie esaminata, effettivamente tutelato più dalla celere adozione a breve distanza di tempo dall’allontanamento, che dalla giustizia italiana ed europea.

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