Sul dovere dei giudici di apparire imparziali: qualche appunto giurisprudenziale applicabile al caso Apostolico
a cura di Bruno Pitingolo
Per la Rubrica “di Robusta Costituzione” : un video pubblicato dal Ministro delle infrastrutture e dei trasporti Matteo Salvini sui propri social network ha riunito il dibattito pubblico italiano attorno al tema dell’imparzialità dei giudici.
Il video ritrae la giudice Iolanda Apostolico partecipare a una manifestazione a favore dei migranti a Catania, nel 2018. La questione della sua imparzialità si è posta quando la stessa giudice lo scorso settembre ha annullato la richiesta di detenzione per quattro migranti tunisini nel Centro delle procedure accelerate di accoglienza di Pozzallo, in provincia di Ragusa, e giudicato illegittime alcune disposizioni del d.l. n. 20 del 2023, passato alle cronache come il decreto di Cutro[1].
Il presente contributo vuole essere un’occasione per una breve consultazione della giurisprudenza prevalente in materia, e per avviare un’indagine sul dovere dei giudici di apparire imparziali.
- Il bilanciamento tra l’art. 21 Cost. e l’art. 54, co. 2 Cost. sulla “disciplina e l’onore” di chi esercita funzioni pubbliche
La possibilità del magistrato di rappresentare la propria persona al di fuori delle sedi processuali senza che ciò costituisca una violazione dell’art. 111 della Costituzione, è indubbiamente uno dei punti più complicati dell’obbligo di imparzialità dei magistrati.
Se infatti sia il diritto alla libera manifestazione del proprio pensiero, da una parte, sia l’interesse a un buon andamento della giustizia come strumento posto al servizio del cittadino ex art. 24 Cost., dall’altra, sono delle prerogative immanenti a una forma di stato pluralista, esse, se considerate dal punto di vista del magistrato e dei suoi rapporti con l’opinione pubblica possono apparire conflittuali e richiedere un contemperamento.
Alla libera manifestazione del pensiero la Corte costituzionale ha dedicato alcuni dei suoi scritti più importanti, asserendo che tale libertà “è tra le libertà fondamentali proclamate e protette dalla nostra Costituzione”, nonché “una di quelle (…) che meglio caratterizzano il regime vigente nello Stato[2]”.
Nel suo passato giurisprudenziale ha in altro modo qualificato il diritto previsto dall’art. 21 della Costituzione come “il più alto, forse, dei diritti primari e fondamentali sanciti dalla Costituzione[3]”, e ritenuto che la libertà di opinione sia da ricondursi ai valori più espressivi della nostra democrazia, costituendo essa la “pietra angolare dell’ordine democratico[4]”, “cardine di democrazia nell’ordinamento generale”[5].
Di contro, tuttavia, parte della dottrina e della stessa giurisprudenza costituzionale hanno ritenuto conforme e “non contrario alla Costituzione che la legge regoli forme e modi di manifestazione del pensiero in relazione alle funzioni svolte”[6]. Persino quegli studiosi che hanno sostenuto con vigore la lettura individualistica dell’art. 21 Cost., hanno affermato che “non si esclude che la necessità di esplicazione delle funzioni possa determinare limiti alla possibilità di esercizio del diritto di manifestare il proprio pensiero in determinate forme e modi”, accettando in definitiva che, “a causa dell’impiego, il pubblico impiegato incontri limiti alla possibilità di lecitamente manifestare il proprio pensiero”[7].
L’articolo della Costituzione che è stato utilizzato per dare sostegno a queste argomentazioni è l’art. 54, co. 2. Cost., il quale afferma che “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”.
All’insieme tracciato dall’art. 54, co. 2. è iscrivibile la categoria dei magistrati, verso i quali i requisiti della fedeltà e dell’onorabilità sono stati rafforzati dall’ulteriore obbligo di prestare giuramento. Come infatti stabilito dall’art.9 dell’Ordinamento giudiziario (r.d. n. 12 del 30 gennaio 1941), all’atto di ingresso nell’ordine giudiziario i nuovi magistrati debbono prestare giuramento con la seguente formula di rito: “Giuro di essere fedele alla Repubblica italiano e al suo Capo, di osservare lealmente le leggi dello Stato e di adempiere con coscienza i doveri inerenti al mio ufficio”[8].
In questo senso, la disciplina e l’onorabilità che sono imposti al magistrato trovano il proprio campo di applicazione anche verso l’esterno e nel rapporto che egli intrattiene con i cittadini. Quest’obbligo, che è un corollario del principio dell’imparzialità processuale, è in grado di incidere sulla partecipazione dei magistrati alla vita pubblica, onde evitare che gli interessi del buon andamento della giustizia e dell’imparzialità finiscano per subire dei compromessi.
- La posizione della Corte costituzionale sul tema dell’imparzialità e “l’apparenza di imparzialità dei giudici” (cenni al Codice etico dei magistrati)
L’interesse a individuare delle condizioni di esercizio della libertà di opinione del magistrato comincia a percepirsi da una sentenza della Corte costituzionale n. 100 dell’8 giugno del 1981. A ben vedere, come si legge dagli scritti di Nello Rossi, una volta avvenuto il ricambio generazionale e che ha cessato di prestare il servizio la magistratura degli anni Cinquanta e Sessanta[9].
Giunti all’oggi, un cambio di passo sembra ravvedersi se si pensa alle tendenze più recenti della Corte costituzionale. Volendo qui aprire una parentesi con riguardo ai giudici costituzionali, ci si accorge che la questione della loro esposizione in pubblico sembra assumere i caratteri di una minaccia alla separazione dei poteri meno grave di quanto non lo sia stata qualche anno addietro. Al contrario, l’“uscita” della Corte dal Palazzo della Consulta è stata fatta rientrare fra i nuovi propositi degli ultimi anni. Come si evince da alcune dichiarazioni dei presidenti emeriti, la Corte oggi scommette sull’”apertura”, che è definita come la “parola d’ordine[10]”; “si immerge «nel Paese reale», per conoscere i cittadini, per diffondere la conoscenza della Costituzione e farne condividere i valori, allo scopo di costruire una solida cultura costituzionale”[11].
Al di fuori di questa nuova politica costituzionale del giudice delle leggi, verso la quale si sono dimostrati più diffidenti quei commentatori che hanno parlato di una «mediatizzazione»[12] della Corte costituzionale italiana, ciò che all’interno della rassegna giurisprudenziale non è mai mutato è il carattere ineludibile dell’imparzialità di chi giudica, pure se contrapposto al diritto del magistrato-cittadino alla libera manifestazione del proprio pensiero.
Come anticipato questa esigenza, con stretto riguardo ai giudici delle magistrature ordinarie, ha cominciato ad avvertirsi con la sentenza n. 100 dell’8 giugno del 1981, con la quale sono state offerte le prime precisazioni a presidio della credibilità e dell’imparzialità del magistrato.
In quella data, la Corte ha ritenuto di rimarcare i doveri dell’imparzialità e dell’indipendenza come veri e propri valori costituzionali, che “vanno tutelati anche come regola deontologica da osservarsi in ogni comportamento”. Infatti, il diritto che sembra assumere un significato preminente è quello dell’imparzialità e della credibilità dei giudici: “la libertà di manifestazione del pensiero deve essere bilanciata con l’esigenza di tutelare, in funzione dell’imparzialità e dell’indipendenza, la considerazione di cui il magistrato deve godere presso la pubblica opinione”[13].
A fronte di queste osservazioni iniziali, appare dunque possibile dare una prima risposta positiva al fatto che il dovere per il giudice di essere imparziale comporta un ulteriore obbligo di apparire come tale.
Si potrebbe qui riassumere della presenza, da una parte, di un dovere costituzionale statico all’imparzialità, e dall’altra di un dovere costituzionale dinamico che sottende la necessità per il giudice di apparire in tal senso. Ancora, in richiamo alla classica distinzione tra il sostrato formale e materiale della Costituzione, si evince che a un dovere di imparzialità endoprocessuale si è aggiunto un dovere per il giudice di apparire credibile anche verso l’esterno, che è in seguito divenuto pacifico all’interno della nostra forma di stato.
Doveva trattarsi, ad avviso della stessa Corte, di un precetto costituzionale che per la verità era particolarmente diffuso sin dai tempi dell’Assemblea costituente, la quale avrebbe anzitempo espresso uno “sfavore nei confronti di attività o comportamenti idonei a creare tra i magistrati e i soggetti politici legami di natura speciale (…), con conseguente compromissione, oltre che dell’indipendenza e dell’imparzialità, anche della apparenza di queste ultime”[14]. Se non altro di un valore molto caro a Piero Calamandrei, le cui celebri parole hanno ricordato che “I giudici, per godere della fiducia del popolo non basta che siano giusti, ma occorre anche che si comportino in modo da apparire tali”[15].
All’obbligo per i giudici di apparire imparziali, può tuttavia rendersi necessario un ulteriore passaggio interpretativo, che s’impegni ad attribuire al dovere alcune esemplificazioni o tratti tipici, in modo da ovviare al rischio che una sola lettura di principio possa risultare evanescente e difficilmente applicabile alle fattispecie concrete.
A questo stretto proposito, a venire in soccorso è la giurisprudenza tutt’ora prevalente della Corte costituzionale, che ha assegnato al dovere dei giudici, dapprima un’impostazione più restrittiva con la Sent. n. 224 del 2009, e successivamente un orientamento più flessibile con la Sent. n. 170 del 2018.
Con la prima delle due pronunce che si provano a prendere di riferimento, il giudice delle leggi ha in particolare ritenuto che “i magistrati, per dettato costituzionale, debbono essere imparziali e indipendenti e tali valori vanno tutelati non solo con specifico riferimento al concreto esercizio delle funzioni giudiziarie, ma anche come regola deontologica da osservarsi in ogni comportamento al fine di evitare che possa fondatamente dubitarsi della loro indipendenza ed imparzialità”.
Il brano della Corte qui richiamato assegna all’obbligo del giudice di essere imparziale la caratteristica di una regola che è allo stesso tempo deontologica, e che, dovendosi “osservarsi in ogni comportamento”, consente implicitamente di ricavarne l’ulteriore declinazione del dovere di apparire imparziale.
Nell’occasione, la Corte ha probabilmente inteso offrire un seguito giurisprudenziale all’approvazione del primo codice etico dei magistrati, venuto alla luce tre anni prima con l’emanazione del d.lgs n. 109 del 2006. In effetti, quest’ultimo dava accoglimento a un’impostazione più rigorosa rispetto al dovere disciplinare del silenzio e dell’apparenza, e all’art.2, comma 1, lett. bb sanzionava la condotta del magistrato che avrebbe rilasciato “dichiarazioni ed interviste in violazione dei criteri di equilibrio e di misura”. Allo stesso tempo, all’art. 3 lett. f qualificava come un illecito disciplinare “la pubblica manifestazione di consenso o dissenso in ordine a un procedimento in corso quando, per la posizione del magistrato o per le modalità con cui il giudizio è espresso, sia idonea a condizionare la libertà di decisione nel procedimento medesimo”.
Questa impostazione più restrittiva è stata temperata dal successivo e attualmente vigente codice etico della magistratura, approvato il 13 novembre 2010 dal Comitato direttivo centrale dell’Associazione nazionale magistrati. Esso, all’art. 6, nel regolare i rapporti dei magistrati con la stampa e con gli altri mezzi di comunicazione di massa, appare infatti più propenso a dettare della regole di condotta, che non delle vere e proprie sanzioni disciplinari, affermando che, comunque rimanendo “Fermo il principio di piena libertà di manifestazione del pensiero”, “il magistrato si ispira a criteri di equilibrio, dignità e misura nel rilasciare dichiarazioni ed interviste ai giornali e agli altri mezzi di comunicazione di massa, così come in ogni scritto e in ogni dichiarazione destinati alla diffusione”.
Alla nuova impostazione adottata dal codice etico della magistratura, che vuole essere evidentemente più attuale alla società dell’informazione e di una comunicazione più estesa, ha fatto eco una rivisitazione della giurisprudenza costituzionale del 2006.
Con la Sent. n. 170 del 2018, riecheggiano i criteri dell’equilibrio e della misura, ma i giudici della Corte rivolgono altresì le attenzioni al fatto che le linee guida dettate non possono mai privare “il magistrato dei suoi diritti fondamentali in qualità di cittadino di cui agli artt. 17, 18 e 21 Cost.”. In altri termini, gli estremi per un’operazione di bilanciamento tra diritti costituzionali esistono, non potendo con ciò accogliersi una lettura draconiana che privi il magistrato di una facoltà di partecipazione civica ad eventi che ben possono riguardarlo in qualità di semplice cittadino. Gli immaginari di un giudice di montesquiana memoria come “bocca della legge” devono perciò ritenersi inattuali e non più proponibili.
Ciò posto, l’altra faccia della medaglia è completata da alcuni fra gli indicatori a carattere negativo che possono essere spie di possibili comportamenti imparziali del magistrato. La Corte, ad integrazione del suo ragionamento, individua questi rischi in degli indicatori sintomatici di un’organicità o di una partecipazione sistematica del magistrato a un partito politico, ovvero un movimento di pensiero in generale, che non lasciano spazio ad interpretazioni differenti dalla manifestazione di una vera e propria adesione. Questi casi, possono bene iscriversi nell’elenco di quelle fattispecie chiuse di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 109 del 23 febbraio 2006 che per il magistrato costituiscono degli “illeciti disciplinari fuori dall’esercizio delle funzioni”, e fra gli altri: quelli di cui alla lett. c) in caso di svolgimento delle attività incompatibili con la funzione giudiziaria di cui all’articolo 16, comma 1, del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (l’assunzione di impieghi pubblici o privati); alla lett. g) in caso di partecipazione ad associazioni segrete; e alla lett. h) nel caso di un’iscrizione o una partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici.
Al di fuori di queste attività, che non consentirebbero di vedere alla figura del magistrato come una figura imparziale in ogni aspetto della sua vita pubblica, l’esercizio degli altri diritti che egli volesse esercitare in qualità di cittadino deve pertanto mantenersi “nei limiti della non sistematicità ed organicità”, e dal punto di vista della manifestazione esteriore dell’”equilibrio e della misura” (punto quattro della motivazione).
- … un breve confronto con la giurisprudenza della Corte EDU
Alla questione dell’imparzialità dei magistrati non è certamente rimasta insensibile la giurisprudenza della Corte EDU, il cui confronto con l’ordinamento italiano può procedere in senso speculare.
La disposizione sovranazionale che si può interpretare in senso equivalente all’art. 111 della Costituzione italiana è l’art. 6 della CEDU: a questa disposizione della Convenzione, nella quale posto centrale occupa l’imparzialità neutralità del giudice, il giudice delle leggi ha attinto per l’elaborazione della dottrina del giusto processo, in attesa della legge costituzionale n. 2 del 1999[16].
Quanto invece alla disposizione gemella dell’art. 54 co. 2 della Costituzione italiana che limita la manifestazione del pensiero in relazione alla pubbliche funzioni svolte, essa può essere individuata nell’art. 10 della CEDU, il quale sulla stessa lunghezza d’onda afferma che l’esercizio della libertà di espressione di cui al primo comma dello suo stesso articolo “può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica” (…) e per esplicito al fine di “garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario”.
Proprio il secondo comma dell’art. 10 della CEDU, ha operato da patente di legittimità in ordine all’assoggettamento ai componenti dell’ordine giudiziario di un dovere di riserbo, che il giudice di Strasburgo ha in seguito ritenuto di poter essere imposto a tutti i “fonctionnaires publiques”[17]. Lo stesso bilanciamento fra diritti che ha impegnato la Corte costituzionale italiana, è stato predisposto dalla Corte di Strasburgo, la quale ha a sua volta statuito che siffatto contemperamento abbia ad oggetto un “equo bilanciamento tra il diritto fondamentale di un individuo alla libertà di espressione e il legittimo interesse di uno Stato democratico ad assicurarsi che la sua funzione pubblica promuova adeguatamente le finalità enumerate nel secondo paragrafo dell’art. 10”[18].
Anche da alcune pagine della giurisprudenza di Strasburgo, si scorge inoltre l’esistenza di un dovere dei magistrati ad apparire imparziali. Trovano infatti rilievo quelle situazioni di natura personale che possono derivare dal comportamento del giudice, e che richiamano gli stessi ad adottare la massima discrezione allo scopo di garantire la loro immagine di giudici imparziali[19]. Con la sentenza sez. I, sent. 28 novembre 2002, Lavents c. Lettonia, la Corte EDU ha ritenuto che si tratta di un dovere imposto dalla “superiore esigenza di giustizia e dall’elevata natura della funzione giudiziaria”[20].
- Considerazione finale
Al tirar delle somme, ci si può sicuramente rassegnare all’idea che i giudici, alla carta terzi e imparziali, non avrebbero delle proprie idee in merito. Nell’ipotesi mai irrealizzata e irrealizzabile si potrebbe anzi discutere di quanto sia conveniente per il cittadino un’amministrazione della giustizia resa nel modo più apatico e decontestualizzato possibile. Non solo sarebbe illusorio pensarlo, ma probabilmente si rivelerebbe controproducente ai differenti diritti delle parti coinvolti nel caso concreto, verso i quali i giudici devono sì rimanere distaccati, ma nel senso di disinteressati e non insensibili.
Al di là dell’auspicio, la giurisprudenza tutt’ora prevalente non sembra volersi distrarre rispetto all’idea che il giudice sia un magistrato nella doppia veste di un magistrato-cittadino.
In ordine ai suoi atteggiamenti da seguire, in questo senso la sentenza n. 170 del 2018 della Corte costituzionale è parsa assumere un significato pedagogico[21], con il giudice delle leggi che ha provveduto a dettare alcune coordinate di fondo che non si sono rivelate distanti da quelle previste nel codice etico del 2010.
Allo stesso tempo, tuttavia, sembra mantenersi in capo ai magistrati una responsabilità con riguardo ai rapporti che essi intrattengono con l’opinione pubblica: se ne ricava che sembra spettare pur sempre al singolo magistrato che volesse esporsi pubblicamente quel compito valutativo di comprendere se alla stregua dei canoni dell’”equilibrio” e della “misura” è il caso che anch’egli vi prenda parte oppure no.
L’immagine che egli rappresenterà di se stesso è il risultato di un attento contemperamento fra la spendita del proprio diritto alla libera manifestazione del pensiero, e l’ineludibile obbligo di essere imparziale e di apparire in tal senso.
[1][1] Cfr. “Cosa significa per un giudice essere imparziale”, Il Post, del 10 ottobre 2023 https://www.ilpost.it/2023/10/10/imparzialita-giudici/
[2] Corte cost., Sent. n. 9 del 19 febbraio del 1965.
[3] Corte cost., Sent. n. 168 dell’8 luglio del 1971.
[4] Corte cost., Sent. n. 84 del 17 aprile del 1969.
[5] Corte cost., Sent. n. 126 del 2 maggio 1985.
[6] M. Mazziotti di Celso, “Appunti sulla libertà di manifestazione del pensiero nell’ordinamento italiano”, in AA. VV., Scritti in onore di Vezio Crisafulli, II, CEDAM, 1985, Padova.
[7] C. Esposito, “La libertà di manifestazione del pensiero nell’ordinamento italiano”, Giuffrè, 1958, Milano.
[8] R. Rordorf, “L’art. 54 della Costituzione” – commentario, in La Magistratura, 22 aprile 2022.
[9] “Lo sappiamo bene: quella magistratura restava silenziosa in pubblico per ragioni politiche e di difesa corporativa. Da un lato essa era profondamente omogenea, socialmente e culturalmente, alla classe dominante e perciò non sentiva quasi mai il bisogno di prendere la parola per criticare leggi o politiche del giudiziario o dell’ordine pubblico”, v. più approfonditamente N. Rossi, “Il silenzio e la parola dei magistrati. Dall’arte di tacere alla scelta di comunicare”, in Questione giustizia.
[10] M. Cartabia, Relazione sull’attività della Corte costituzionale nel 2019.
[11] G. Lattanzi, Conferenza stampa del 26 settembre 2018, in www.cortecostituzionale.it
[12] Cfr. A. Morrone, “Suprematismo giudiziario. Su sconfinamenti e legittimazione politica della Corte costituzionale”, in Quaderni costituzionali, n. 2/2019 (anche con riferimento alla attività extraistituzionali della Corte come le sue interviste, i comunicati stampa, i podcast, le iniziative di incontro con la società civile fuori dal Palazzo della Consulta, etc.).
[13] Corte cost., Sent. n. 100 dell’8 giugno 1981.
[14] Corte cost., Sent. n. 170 del 20 luglio del 2018.
[15] P. Calamandrei, Elogio dei giudici scritto da un avvocato, Firenze, Le Monnier.
[16] C. Bologna, “Apparenza d’imparzialità o tirannia dell’apparenza? Magistrati e manifestazione del pensiero”, in Quaderni costituzionali, n. 3/2018.
[17] Corte EDU, Sent. Altin v. Turkey, del 6 aprile 2000.
[18] Corte EDU, Sent. Vogt v. Germany, 26 settembre 1995.
[19] G. Caneschi, “L’imparzialità del giudice nel prisma della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e le ricadute sull’ordinamento interno”, in Archivio Penale, n.2/2022.
[20] Corte EDU,Sent. Lavents c. Lettonia del 28 novembre 2002.
[21] M. G. Civinini, “Indipendenza e imparzialità dei magistrati”, in Questione giustizia.