18 Marzo 2025
18 Marzo 2025

Rispetto della vita privata e tutela del diritto di libertà religiosa: commento alla sentenza CEDU pronunciata sul caso Pindo Mulla contro Spagna (D. 15541/2020)

A cura di Nicola Burbo

  1. Introduzione

Con la sentenza pronunciata il 17 settembre 2024, la Grande Camera della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha accertato la violazione dell’articolo 8 (Diritto al rispetto della vita privata e familiare), letto alla luce dell’articolo 9 (Libertà di pensiero, di coscienza e di religione) della Convenzione, nel caso della signora Rosa Edelmira Pindo Mulla, Testimone di Geova, alla quale venivano somministrate tre trasfusioni di sangue, a seguito di un intervento chirurgico finalizzato alla rimozione di un mioma, nonostante la paziente avesse, preventivamente, esternato la propria volontà a non volerne ricevere.

Lo scopo del presente commento è quello di analizzare, partendo dagli elementi fattuali, il caso; fornire le interpretazioni giurisprudenziali concernenti fattispecie analoghe; nonché, delineare i risvolti che tale pronuncia potrebbe sortire nell’ordinamento giuridico italiano.

  1. Il fatto.

La signora Rosa Edelmira Pindo Mulla, nata in Equador nel 1970 e residente in Soria, nella Comunità Autonoma di Castiglia e Leon, in Spagna, nel mese di maggio 2017 ha effettuato il suo accesso nel locale nosocomio di Santa Barbara, per un problema di ritenzione urinaria. Gli esami diagnostici specialistici, compiuti nei due mesi successivi, hanno rilevato che il suo disturbo fosse da ricondurre alla presenza di un fibroma uterino (mioma), consigliandole di sottoporsi ad un intervento chirurgico, consistente in isterectomia e salpingectomia, al fine di rimuoverlo.

La paziente, accettando il suggerimento, ha da subito informato l’Ospedale del suo rifiuto alla trasfusione di sangue, sulla base degli insegnamenti della sua fede religiosa, riferendosi, in particolare, al comando biblico di “astenersi dal sangue[1]. Infatti, il 04.08.2017, in vista dell’operazione, la signora ha cristallizzato la sua volontà in due documenti, redatti in conformità di quanto disciplinato ex art.11 della legge n.41/2002, ossia la c.d. direttiva medica anticipata (documento de instrucciones previas) e la c.d. procura continuativa(declaration de voluntades anticipadas).

Nel gennaio del 2018, la paziente si è recata al pronto soccorso dell’Ospedale di Soria, lamentando sanguinamento vaginale ed episodi di vertigini, quindi le veniva prescritto un farmaco per fermare l’emorragia (acido tranexamico) e un altro per ridurre le dimensioni del mioma (ulipristal acetato). Tale ciclo terapeutico è durato sino al mese di giugno 2018.

Il 05.06.2018 si è recata nuovamente in clinica per sanguinamento e dolore addominale, ma veniva dimessa dati i suoi livelli di emoglobina (12,2 g/dL). Visto il persistere dei sintomi, il giorno successivo è stata ricoverata e gli esami hanno evidenziato un aumento delle dimensioni del mioma. Il ginecologo, inoltre, riteneva necessario effettuare una trasfusione di sangue, poiché i livelli di emoglobina si erano ridotti drasticamente (da 12,2 g/dL a 5,7 fino a 4,7 g/dL), ma la signora ha prontamente rifiutato, in virtù dei documenti sottoscritti.

Il 07.06.2018 si è ritenuto opportuno trasferire la paziente all’Ospedale La Paz di Madrid, noto per la sua capacità di fornire trattamenti tali da non comportare trasfusioni. Nello specifico, in luogo dell’intervento chirurgico, si paventava l’ipotesi di praticare l’embolizzazione dell’arteria uterina.

Nello stesso giorno, tre medici della clinica madrilena hanno inviato un fax al Giudice di turno del Tribunale Istruttorio n.9 della Capitale, con il quale spiegavano lo stato di salute dell’assistita e chiedevano come procedere. Il Giudice ha chiesto un parere al medico legale, il quale ha affermato che non essendo sicuro se la paziente fosse stata in grado di dare e/o rifiutare il suo consenso, l’emorragia avrebbe generato un grave rischio per la vita della stessa. Il Giudice ha autorizzato il trattamento della paziente con le misure mediche e chirurgiche necessarie per salvaguardare la sua vita e la sua integrità fisica, ritenendo, in guisa con quanto statuito dalla Corte Costituzionale nella pronuncia n.120 del 27.06.1990,  che il contenuto del diritto alla vita comprende una tutela positiva che impedisce la sua interpretazione come una libertà che include il diritto alla propria morte; infatti l’art. 16 della Costituzione spagnola non concede il diritto alla libertà religiosa senza alcun tipo di limitazione.

Giunta in Ospedale, la signora è stata sottoposta ad intervento chirurgico, durante il quale si è verificata un’emorragia, per cui si è ritenuto necessario eseguire tre trasfusioni di globuli rossi.

Il giorno seguente, la paziente è stata resa edotta della decisione del Giudice, nonché dell’intervento e delle trasfusioni, in ordine alle quali si è sentita molestata. Successivamente, ha richiesto copia del provvedimento del giudice, che ha ricevuto il 12.07.2018, del quale ha chiesto l’annullamento (recurso de reforma) ed avverso il medesimo ha presentato ricorso incidentale (recurso de apelaciòn), osservando che fosse stata emessa su richiesta unilaterale dell’ospedale. Ha, inoltre, posto a fondamento delle sue motivazioni la distorsione dei fatti, in quanto lei avrebbe rifiutato solo la trasfusione e non anche gli altri trattamenti sanitari e che sarebbe stata trasferita al nosocomio di La Paz proprio per ricevere cure alternative; ha lamentato che la decisione non le fosse stata notificata, negandole la tutela legale dei suoi diritti (articolo 24 Costituzione); ha invocato i diritti sanciti dagli articoli 15 e 16 della Costituzione, nonché gli articoli 8 e 9 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, citando la sentenza della Corte pronunciata nel caso Testimoni di Geova di Mosca e altri contro Russia, n.302/02 del 10.06.2010.

La domanda di annullamento è stata respinta in data 22.08.2018 dallo stesso Giudice che ha emesso la decisione impugnata, richiamando le medesime circostanze. Anche l’Audencia Provincial ha respinto il ricorso il data 15.10.2018.

Il 27.11.2018, la signora Pindo Mulla ha presentato ricorso alla Corte Costituzione, sostenendo la violazione del diritto all’integrità fisica (articolo 15 Costituzione), della libertà di religione (articolo 16, comma 1, Costituzione) e del diritto a una tutela giurisdizionale effettiva dei suoi diritti (articolo 24, comma 1, Costituzione).

La Corte Costituzionale, il 09.10.2019, ha dichiarato inammissibile la domanda, sulla base dell’assenza di una violazione di un diritto fondamentale tutelato.

  1. La vetustà della giurisprudenza richiamata dal Giudice madrileno.

Il Giudice di turno del Tribunale madrileno, autorizzando i medici a porre in essere i trattamenti sanitari più opportuni al fine di preservare la vita della paziente, poneva a fondamento della sua decisione la sentenza n. 120/1990 del 27 giugno 1990.

Il contesto della sentenza richiamata era uno sciopero della fame da parte dei prigionieri, che protestavano per il fatto di essere stati collocati in carceri diverse. All’amministrazione penitenziaria era stata concessa l’autorizzazione giudiziaria a fornire le cure mediche necessarie ai prigionieri se lo sciopero della fame fosse continuato fino al punto in cui le loro vite fossero state in pericolo, essendo stato stabilito che non poteva esserci alimentazione forzata per via orale e che il trattamento non potesse essere somministrato mentre i prigionieri erano coscienti. I prigionieri hanno presentato ricorso costituzionale contro questa decisione. La Corte Costituzionale ha chiarito che la sua sentenza era specifica per il contesto carcerario, in cui vi era un particolare rapporto giuridico tra i detenuti e l’amministrazione penitenziaria. In quel contesto potevano essere applicati limiti ai diritti individuali che non sarebbero stati consentiti al di fuori di esso. Rispondendo all’argomentazione dei prigionieri secondo cui la decisione impugnata era incompatibile con il loro diritto alla vita, la Corte costituzionale ha affermato che questo diritto non include il diritto alla propria morte.  Quanto al diritto all’integrità fisica e morale (protetto dall’articolo 15 della Costituzione spagnola), la Corte ha osservato che questo proteggeva l’inviolabilità della persona non solo contro un’aggressione, ma anche contro qualsiasi intervento che colpisca il corpo o la mente a cui non si fosse acconsentito. Imporre assistenza medica a una persona contro la sua volontà interferiva con tale diritto. Era quindi richiesta una giustificazione costituzionale e l’intervento doveva soddisfare i criteri di necessità e proporzionalità, nonché rispettare l’essenza del diritto. Ha concluso che, nelle circostanze specifiche del caso, e dati i termini in cui era stata espressa, la decisione impugnata soddisfaceva tali requisiti.[2]

Di contro, una pronuncia più recente della Corte Costituzionale spagnola, la n. 37/2011 del 28 marzo 2011, attingendo ampiamente alla Convenzione e alla giurisprudenza pertinente (in particolare Pretty contro Regno Unito, n. 2346/02 , CEDU 2002-III), nonché alle disposizioni della Convenzione di Oviedo in materia di consenso al trattamento medico (articoli 5 e 8), ha sancito che il consenso del paziente a qualsiasi forma di intervento medico era parte integrante del diritto fondamentale all’integrità fisica. Lui o lei poteva rifiutare qualsiasi trattamento medico non consensuale. Il paziente aveva il diritto all’autodeterminazione, utilizzando la propria volontà autonoma per decidere liberamente sui trattamenti medici e sulle terapie che avrebbero potuto influire sulla sua integrità, scegliendo tra le opzioni disponibili e acconsentendo o meno. Per esercitare pienamente questo diritto, il paziente doveva essere adeguatamente informato.  La Corte Costituzionale ha ritenuto che i diritti dell’appellante ai sensi dell’articolo 15 non fossero stati rispettati. Sostenere che fosse sufficiente che egli fosse stato informato prima dell’intervento chirurgico eseguito più di dieci anni prima non era coerente con il contenuto del diritto fondamentale in questione. Quanto all’esistenza di una situazione di emergenza che avrebbe potuto giustificare le azioni dei medici, la Corte ha osservato che non vi era alcuna indicazione che, come previsto dalla legge, i familiari stretti del paziente non potessero essere contattati per dare il consenso informato a suo favore. Inoltre, poiché l’operazione era stata eseguita il giorno successivo, c’era stato il tempo di seguire la procedura richiesta per ottenere il consenso informato. L’esistenza di un rischio per il paziente non era sufficiente per fare a meno del consenso informato: doveva trattarsi di un rischio immediato e grave, il che non era il caso in questione[3].

Alla luce delle due sentenze appena menzionate, viene naturale domandarsi perché il Giudice, interpellato dai medici dell’Ospedale La Paz, non abbia preso in riferimento una pronuncia più recente e, soprattutto, più pertinente alla fattispecie de qua.

Ancora più dirimente è la sentenza dell’Audiencia Provincial di Guipúzcoa (Sezione 2), ricorso n. 2086/2004, del 22 settembre 2004, riguardante proprio un Testimone di Geova che aveva redatto una direttiva anticipata, nella quale dichiarava il suo rifiuto alle trasfusioni, da seguire nel caso in cui fosse stato incosciente. La Corte ha affermato che era indiscusso che l’appellante era pienamente consapevole dell’entità dell’operazione e della possibilità che nel corso dell’operazione potesse rendersi necessario somministrargli sangue. Ciononostante, aveva espresso inequivocabilmente il suo rifiuto alla trasfusione, basato sulle sue convinzioni religiose. Ha ritenuto che mediante la direttiva anticipata, il paziente avesse già esonerato i medici dal prendere qualsiasi decisione durante l’operazione in merito alla necessità della trasfusione, poiché tale decisione era stata presa dal paziente stesso. La Corte ha ritenuto che il fatto che i medici avessero richiesto l’autorizzazione giudiziaria per effettuare la trasfusione, basandosi sul loro interesse a liberarsi da ogni responsabilità, non era conforme alle disposizioni della legge n. 41/2002, contravveniva alla giurisprudenza della Corte costituzionale e non rispettava il diritto dell’appellante all’integrità fisica.[4]  Quest’ultima pronuncia sembra essere “cucita” ad hoc per il caso della signora Pindo Mulla.

  1. La giurisprudenza sul rifiuto di trasfusione di sangue in Italia.

Il tema del rifiuto delle trasfusioni di sangue da parte dei Testimoni di Geova, in Italia, è stato proposto per la prima volta con il “Caso Oneda”, riguardante una bambina sarda, nata nel 1977, affetta da una grave forma di talassemia, curata, illo tempore, con periodiche trasfusioni di sangue. I genitori avviarono questa terapia ma, a seguito della loro adesione alla Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova, avvisarono i medici dell’intenzione di interromperla, cercando soluzioni alternative, compatibili con il proprio precetto religioso. I sanitari, venuti a conoscenza della volontà dei genitori, interessarono il Tribunale per i minorenni, che dispose il periodico ricovero della bambina in ospedale, affinché fosse sottoposta alle necessarie cure. Nel 1980, la bambina morì e i genitori furono condannati per omicidio doloso aggravato, in quanto l’organo giudicante ritenne l’evento morte prevedibile, quale conseguenza del rifiuto dei genitori di fornirle le cure necessarie. La Corte di Cassazione intervenne con sentenza il 13 dicembre 1983, rimproverando i giudici di prime cure di non avere sufficientemente indagato l’elemento psicologico che aveva determinato l’azione dei genitori, che non si erano semplicemente rifiutati di curare la figlia, ma avevano espressamente chiarito che, per motivi religiosi, non avrebbero più contribuito all’esecuzione della terapia trasfusionale. La loro condotta, dunque, non integrava il reato loro ascritto, pertanto furono condannati per omicidio colposo[5].

Significativa, ad oggi, è la sentenza della Corte di Cassazione, Sezione III – Civile, n. 29469, del 23.12.2020emessa nel procedimento che vedeva coinvolta una donna, Testimone di Geova, sottoposta a trasfusione di sangue, a seguito di emorragia conseguente al parto cesareo, nonostante la stessa avesse manifestato la propria contrarietà. In tale pronuncia viene sancito il seguente principio di diritto: “il Testimone di Geova, che fa valere il diritto di autodeterminazione in materia di trattamento sanitario a tutela della libertà di professare la propria fede religiosa, ha il diritto di rifiutare l’emotrasfusione pur avendo prestato il consenso al diverso trattamento che abbia successivamente richiesto la trasfusione, anche con dichiarazione formulata prima del trattamento medesimo, purché dalla stessa emerga in modo inequivoco la volontà di impedire la trasfusione anche in ipotesi di pericolo di vita”[6].

I principi costituzionali tutelati sono, da un lato, quelli riconducibili all’autodeterminazione sanitaria, che trova fondamento negli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione[7]; dall’altro, quelli concernenti la libertà religiosa, ex art. 19 della Costituzione[8].

La garanzia costituzionale ha valenza anche “positiva”, giacché il principio di laicità che informa l’ordinamento repubblicano è “da intendersi, secondo l’accezione che la giurisprudenza costituzionale ne ha dato (sentenze n. 63 del 2016, n. 508 del 2000, n. 329 del 1997, n. 440 del 1995, n. 203 del 1989), non come indifferenza dello Stato di fronte all’esperienza religiosa, bensì come tutela del pluralismo, a sostegno della massima espansione della libertà di tutti, secondo criteri di imparzialità” (sentenza n. 67 del 2017)” [9].

  1. Risvolti

La sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, emessa nel caso Pindo Mulla contro Spagna, si presta ad essere un modello di civiltà e progresso per i diritti di ciascun individuo, che dovrà essere presa come punto di riferimento anche e soprattutto da quegli Stati, estranei alla Convenzione, che comprimono le situazioni giuridiche soggettive dei cittadini.

In Italia, l’orientamento giurisprudenziale più recente riconosce, ampiamente, alle persone il diritto di autodeterminarsi in seno alla scelta tra sottoporsi alla trasfusione di sangue o meno, per motivi religiosi[10].

Rilevante, in tal senso, è stata l’introduzione della legge n.219 del 22 dicembre 2017, disciplinante la materia del consenso informato e delle disposizioni anticipate di trattamento, definita in dottrina “una vittoria per la dignità della vita”[11]. Infatti, l’art.1, comma 1, recita “La presente legge, nel rispetto dei principi di cui agli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione e degli articoli 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona e stabilisce che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge”.

Una norma che racchiude in sé il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione, garantendo all’individuo la libertà di scegliere.

 

[1]Atti degli Apostoli (15:28,29), https://www.bibbiaedu.it/CEI2008/nt/At/15/,.

[2] Corte Europea Diritti dell’Uomo, ricorso n.15541, 13 marzo 2020.

[3] Corte Europea Diritti dell’Uomo, ricorso n.15541, 13 marzo 2020.

[4] Corte Europea Diritti dell’Uomo, ricorso n.15541, 13 marzo 2020

[5] P. Consorti, Libertà di scelta della terapia e violenza medica. Brevi considerazioni sul rifiuto delle trasfusioni di sangue dei testimoni di Geova, in Rivista telematica (https://www.statoechiese.it), fascicolo n.10 del 2021.

[6] Cass. Civ. Sez. III, sentenza n. 29469, 23 dicembre 2020.

[7] Corte Cost., sentenza n.438, 23 dicembre 2008,

[8]Corte Cost., sentenza n.254, 5 dicembre 2019

[9] Cass. Civ. Sez. III, sentenza n.29469, 23 dicembre 2020.

[10] Cfr. Cass. Civ. Sez. III, sentenza n. 29469, 23 dicembre 2020.

[11] A. N. Manzione, Una vittoria per la dignità della vita: la Legge n. 219 del 22 dicembre 2017. Breve commento e riflessioni, in Giurisprudenza Penale Web, 2018 7-8.

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