
L’art. 337 c.p. è rubricato “Resistenza a pubblico ufficiale” ed è collocato nel libro II, titolo II e capo II in merito ai delitti dei privati contro la pubblica amministrazione. La norma in esame punisce con la reclusione da 6 mesi a cinque anni chiunque usi violenza o minaccia per opporsi ad un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio mentre questo compie un atto di ufficio o servizio o fornisce assistenza; questa è volta a tutelare la libertà di azione del pubblico ufficiale, la cui libertà è essenziale per l’ordinato svolgimento della convivenza sociale, la quale deve esplicarsi senza trovare ostacolo in forme di coazione fisica o morale posta con l’illecito e precipuo intento di impedirne il pieno esercizio.
Diversi sono gli aspetti sui quali bisogna soffermarsi: in primis bisogna sottolineare come la violenza di cui tratta l’art. 337 c.p., non sia la stessa di quella menzionata dal precedente articolo 336 c.p.; nella figura in esame la violenza o minaccia accompagna e non anticipa il compimento dell’atto e deve essere idonea ad ostacolare concretamente lo svolgimento della funzione da parte del pubblico funzionario motivo per cui, tale reato non può configurarsi quanto la condotta dell’agente sia passiva come ad esempio nei casi di fuga.
La Cassazione ritiene che ai fini della configurabilità del reato di resistenza a pubblico ufficiale non sia necessario che la violenza o la minaccia siano usate sulla persona del pubblico ufficiale, ma soltanto che siano state poste in essere per opporsi allo stesso nel compimento di un atto di ufficio, con la conseguenza che è sufficiente anche la violenza sulle cose, la quale non è però configurabile quando la condotta si traduce in un mero atteggiamento di resistenza passiva[1].
Discusso è il problema che riguarda la fuga, se e quando questa possa configurare resistenza al pubblico ufficiale. Pacifico è che la semplice fuga a piedi non può mai configurare il reato in esame, in quanto in essa non è ravvisabile né violenza né minaccia; a meno che la fuga, come afferma la giurisprudenza, non sia stata agevolata da spintoni che il soggetto dà all’agente di polizia al fine di liberarsene dalla presa. La giurisprudenza ha precisato, comunque, che costituisce resistenza a pubblico ufficiale: la fuga in auto per forzare un posto di blocco; la fuga in auto attuata con fulminei testa-coda per costringere gli inseguitori a manovre ritardatrici onde evitare l’urto; la fuga in auto attuata con modalità tali da porre in pericolo l’incolumità degli inseguitori.
La materialità del delitto di resistenza a p.u. può restare integrata anche dalla violenza cosiddetta impropria, da quella violenza cioè che, pur non aggredendo direttamente il pubblico ufficiale, si riverbera negativamente sull’esplicazione della relativa funzione pubblica, impedendola o semplicemente ostacolandola[2], la Cassazione l’ha definita come qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e di azione e che viene posta in essere attraverso l’uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui, impedendone la libera determinazione[3].
La Cassazione nel dicembre 2017[4] si è nuovamente espressa sull’art. 337 c.p. in ordine ad una nuova problematica interpretativa: qualora l’agente, con una sola azione usi violenza o minaccia per opporsi a più pubblici ufficiali o a più incaricati di pubblico servizio mentre compiono un atto del loro ufficio o servizio, la sua violenza deve considerarsi come l’integrazione di più reati di cui all’art. 337 c.p. in continuazione o come un unico reato?
Secondo la Cassazione del 1988[5], prevarrebbe l’orientamento secondo cui si ha continuazione di reati in quanto la resistenza, pur ledendo unitariamente il pubblico interesse alla tutela del normale funzionamento della pubblica funzione, si risolve in distinte offese al libero espletamento dell’attività funzionale di ciascun pubblico ufficiale.
La Cassazione penale invece nel 2014[6] si era esposta a favore dell’unicità del reato fondando la sua tesi sulla formulazione del dato letterale fornito dal legislatore il quale focalizza, quale obiettivo della condotta criminosa, l’opposizione all’atto piuttosto che la violenza o minaccia nei confronti del singolo in quanto tale, essendo tale il bene espressamente tutelato dall’art. 337 c.p. rappresentato dalla regolare attività dell’Amministrazione rispetto alla quale, l’offesa al pubblico ufficiale rappresenta un danno collaterale; inoltre, continua la Cassazione, se si considerassero più fattispecie criminose, si perderebbe di vista il bene oggetto della salvaguardia apprestata dall’art. 337 c.p. che è rappresentato dal regolare svolgimento dell’attività della PA e per giunta sarebbe necessario, per configurare questa fattispecie, considerarsi un quid pluris di tipo soggettivo cioè un atteggiamento psicologico diretto a realizzare l’evento tipico previsto dalla norma nei confronti di ciascuna persona distintamente considerata.
Con sentenza 35227/2017 infine la Cassazione ha precisato che la pubblica amministrazione è un’entità astratta, che agisce per mezzo di persone fisiche, ciascuna delle quali conserva una distinta identità, suscettibile di offesa; inoltre il reato contemplato dall’art. 337 c.p. è connotato da violenza o minaccia alla persona, il che conferisce una certa centralità all’opposizione violenta all’azione del singolo pubblico ufficiale.
A causa di questa divergenza interpretativa e dei molteplici orientamenti contrastanti della Cassazione si rende necessario un celere intervento delle Sezioni Unite a riguardo.
[1] Cassazione penale, Sez. VI, gennaio 2015 n. 6069
[2] Cassazione penale, Sez. VI, luglio 1997 n. 2721
[3] Cassazione penale, Sez. V, ottobre 2015 n. 48346
[4] Cassazione penale, Sez. VI, dicembre 2017 n. 57249
[5] Cassazione penale, n. 3546/1988
[6] Cassazione penale, Sez. VI, settembre 2014 n. 37727