27 Aprile 2025
27 Aprile 2025

Principio del “ne bis in idem” in materia di reati societari

Il contributo riguarda l’obbligo, in capo al giudice, di verificare che il procedimento per il reato di bancarotta fraudolenta e quello per il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte non abbiano ad oggetto lo stesso fatto storico. L’assenza di tale verifica, infatti, potrebbe configurare una violazione del principio di “ne bis in idem”. Com’è noto, l’art. 4 del Protocollo n. 7 CEDU vieta che un soggetto possa essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto (o condannato) a seguito di una sentenza passata in giudicato conformemente alla legge ed alla procedura di tale Stato. Quanto appena rappresentato trova fondamento nelle garanzie del “giusto processo” e, specificamente, nel principio di civiltà giuridica espresso dal “ne bis in idem”. La violazione di tale principio, pertanto, andrebbe a creare un vulnus per il godimento delle libertà connesse allo sviluppo della personalità individuale.

A cura di Angelantonio De Palma

Il giudice ha l’obbligo di verificare che il procedimento per il reato di bancarotta fraudolenta e quello per il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte non abbiano ad oggetto lo stesso fatto storico. In assenza di tale verifica, potrebbe configurarsi violazione del principio di “ne bis in idem”. [Cass. Pen., Sez. III, 20 novembre 2024, n. 42462]

Nel caso di specie, l’amministratore di una società era stato assolto per carenza dell’elemento soggettivo dal reato di bancarotta fraudolenta societaria per distrazione ex artt. 216 e 223 R.D. 257/1942 per aver sottratto – attraverso la cessione di un ramo di azienda – l’intero patrimonio della propria società a favore di un’altra S.r.l. In precedenza, però, l’amministratore era stato condannato per il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte di cui all’art. 11 D. Lgs. 74/2000.

Com’è noto, l’art. 4 del Protocollo n. 7 CEDU prevede che nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto (o condannato) a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge ed alla procedura penale di tale Stato. Tale principio, nel diritto interno, è previsto dall’art. 649 c.p.p. ed è ricondotto dalla giurisprudenza costituzionale agli artt. 24 e 111 Cost.-

Proprio la Corte Costituzionale ha ribadito che tra le garanzie processuali del “giusto processo” vi è il principio di civiltà giuridica espresso dal divieto di bis in idem. Grazie al principio in parola giunge un tempo in cui, formatosi il giudicato, l’individuo è sottratto alla spirale di reiterate iniziative penali per il medesimo fatto. La violazione di quanto appena rappresentato andrebbe a creare un vulnus per il godimento delle libertà connesse allo sviluppo della personalità individuale.

Il pacifico orientamento di dottrina e giurisprudenza in merito al divieto – sostanziale e processuale – di un secondo processo assicura il rispetto di tre principi fondamentali del nostro ordinamento: i) certezza del diritto; ii) economia dei giudizi; iii) irrazionale ingiustizia di una pluralità di condanne per il medesimo fatto. 

Nel caso di specie, gli Ermellini hanno demandato al giudice di rinvio di accertare se fra il fatto storico oggetto di giudicato e quello ancora sub iudice vi fosse coincidenza della triade “condotta – evento – nesso causale” anche in relazione alle circostanze di tempo, luogo e di persona atteso che l’identità di tali elementi comporterebbe la preclusione della prosecuzione del processo in ossequio a quanto previsto dall’art. 649 c.p.p. senza, peraltro, la necessità di effettuare un’ulteriore verifica della data di esercizio dell’azione penale nei due procedimenti. 

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