Solo di recente, nel contesto mondiale, si è diffusa una particolare attenzione per la filiera giuridica nel settore della moda. Le tematiche giuridiche proprie del Fashion Law spaziano dai diritti di proprietà intellettuale sino a coinvolgerne le tematiche proprie del diritto penale e della compliance[1]. Nelle c.d. Fashion Industries – aziende di moda e di lusso – la strategia di marketing nonché i rischi collegati al d.lgs. 231/2001 costituiscono temi particolarmente cari al Legal Dpt. in aziende come LVMH e Prada, o comunque in luxory houses che hanno segnato la storia del mondo del fashion.
1. La compliance nella maison de mode.
In un settore spesso attento alle problematiche ambientali, si impone una particolare sensibilità da parte del giurista d’impresa su temi quali la sostenibilità e la “eco-coscienza” del consumatore medio, il quale si domanda, con frequenza sempre maggiore, da dove provengano i tessuti e se gli stessi siano o meno riciclabili, o se, al contrario, gli stessi siano altamente inquinanti per l’ambiente.
Sicuramente il fenomeno delle fast fashion, nelle quali prevale il concetto di quantità a discapito della qualità e in cui vi è un ciclo continuo di produzione di capi delle campagne – primavera/estate o autunno/inverno -, costituisce una delle fonti primarie di inquinamento ambientale causato da quei capi di abbigliamento che al termine di ogni stagione vengono gettati via. Ma vi è di più, il rischio legislativo ex d.lgs. 231/2001 coinvolge anche la situazione dei lavoratori i quali spesso accettano delle condizioni lavorative poco etiche e non inclini alle condizioni previste dal d.lgs. 81/2008[2]. Poste tali premesse, è evidente come le aziende operanti nel fashion debbano maturare una politica che sia incentrata sul cambiamento efficace e sostenibile sia nell’uso dei tessuti, sia per quanto concerne le condizioni lavorative dei propri dipendenti.
La moda, inoltre, opera in un contesto internazionale. Per tali ragioni, si è resa necessaria la realizzazione di standard comuni di cui i marchi di lusso devono tener conto: si pensi a titolo meramente esemplificativo agli standard indicati nel GOTS, ISO 9000[3], e ulteriori accreditamenti specifici, tra cui le certificazioni di Natific’s Mill e quelle dei singoli fornitori di ciascuna maison.
2. La prima sfida della compliance: “il prezzo è il vero re”.
“Per quanto i marchi parlino di conformità e preoccupazione per i diritti e la sicurezza dei lavoratori, la sfortunata realtà è che il prezzo è ancora il re”. Così affermava Edward Hertman durante un’intervista[4]. Il crollo del Rana Plaza, in Asia, nel 2013, ha per la prima volta fatto emergere le disastrose condizioni lavorative nelle quali versavano i dipendenti bangladesi[5]. In verità, il costo irrisorio della mano d’opera asiatica rispondeva ad un preconcetto proprio della cultura occidentale, secondo cui essendo un capo di abbigliamento un bene di prima necessità, lo stesso deve essere necessariamente economico o, quanto meno, conveniente. Ed è proprio sul concetto di convenienza che hanno fatto leva la fast fashion, grazie alla quale il consumatore ha premiato quei capi rappresentanti novità sul mercato a discapito della tutela dei diritti umani ed in particolar modo del diritto alla salute[6].
Uno degli effetti della crisi pandemica che ha colpito il globo nel 2020 è stato però il lento, ma decisivo, cambio di mentalità del consumatore medio, il quale, ad oggi, preferisce allontanarsi dal concetto di fast fashion preferendo quei marchi aventi una propria etica e che utilizzino prodotti riciclabili seppur aventi un prezzo maggiore.
3. La seconda sfida: la supply chain.
Come precedentemente accennato, la curiosità del consumatore circa la provenienza del tessuto e la maturazione della eco-coscienza di quest’ultimo, mal si coniuga con l’aggregazione di dati della supply chain nel settore fashion. Le domande costantemente sollecitate dai consumatori presuppongono una maggiore trasparenza nelle informazioni trasmesse mediante l’utilizzo della “catena di dati”. Circa il 67% dei consumatori afferma che alla base dei propri acquisti vi è proprio la trasparenza in merito all’informazione del capo che si sta scegliendo[7]. Solo alcune maison di moda, però, hanno fatto della trasparenza il proprio vantaggio competitivo, inserendo nell’etichetta del capo di propria produzione il c.d. sigillo di garanzia: si pensi alle certificazioni proprie del commercio equo solidale, USDA Organic e Bluesign. Ancora, alcuni marchi mettono a disposizione sui propri portali web dei software, o comuni piattaforme, in grado di offrire al consumatore una panoramica dell’intera catena di fornitura riferita al proprio marchio. Si pensi al software “Bombler bombos” in grado di collegare tutte le parti coinvolte nella catena di produzione, dal fornitore al consumatore finale.
4. La terza sfida: il codice di condotta.
Oltre all’utilizzo dei Modelli 231, al fine di contrastare una qualsivoglia responsabilità dell’ente, le aziende si sono dotate dei c.d. codici etici, in cui i capisaldi principali sono il rispetto delle leggi in materia di salute, sicurezza, ambiente e lavoro. Tali codici sono sempre inclini al mutatis mutandis della società, e pertanto il legale dell’azienda di moda dovrà porre una maggiore e costante attenzione non solo ai modelli 231 che costituiscono una causa di esclusione della punibilità dell’ente, ma anche ai codici di condotta con i quali si afferma la sensibilità del marchio ai MDGs riconosciuti dall’ONU.
Note:
[1] Orlandini, Il Fashion Law, Cammino Diritto, 2019, disponibile al sito https://rivista.camminodiritto.it/articolo.asp?id=4043
[2] Il testo sul Decreto Sicurezza del Lavoro è disponibile al seguente link https://www.altalex.com/documents/codici-altalex/2013/10/16/testo-unico-in-materia-di-sicurezza-sul-lavoro
[3] Cfr. Amiranda, ISO Compliance: dalla OHSAS 18001 alla ISO 45001, Ius in Itinere, disponibile su https://www.iusinitinere.it/iso-compliance-dalla-ohsas-18001-alla-iso-45001-30841
[4] Per maggiori approfondimenti di legga l’intervista di Hertman rilasciata su https://www.businessoffashion.com/articles/opinion/op-ed-industry-denial
[5] Carofiglio, Fashion Law e il Patto di Utthan, Ius in itinere, disponibile al sito https://www.iusinitinere.it/fashion-law-e-il-patto-di-utthan-26611/amp
[6] Tratto da https://www.bomler.com/blog/the-3-compliance-challenges-fashion-brands-face-and-how-to-overcome-them
[7] Tratto da https://www.bomler.com/blog/the-3-compliance-challenges-fashion-brands-face-and-how-to-overcome-them