Lecause di esclusione del reato o scriminanti escludono l’antigiuridicità di una condotta, altrimenti penalmente rilevante e sanzionabile. Nello specifico: uso legittimo delle armi.
L’articolo 53 del Codice Penale recita così al primo comma: “Ferme le disposizioni contenute nei due articoli precedenti, non è punibile il pubblico ufficiale che, al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio, fa uso ovvero ordina di far uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica, quando vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza all’Autorità e comunque di impedire la consumazione dei delitti di strage, di naufragio, sommersione, disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona”. Si tratta di una scriminante sussidiaria e integrativa: essa opera solo laddove manchino i presupposti della legittima difesa (art. 52) e dell’adempimento di un dovere (art.51).
La scriminante – contrariamente alla legittima difesa che opera a favore di “chiunque” – giustifica l’uso delle armi soltanto da parte dei pubblici ufficiali, e specificamente quei pubblici ufficiali che istituzionalmente sono autorizzati a ricorrere all’uso della forza per realizzare i propri doveri istituzionali. Tuttavia, il secondo comma estende l’applicabilità della disposizione anche a favore di “qualsiasi persona che, legalmente richiesta dal pubblico ufficiale, gli presti assistenza”. L’ultimo comma, poi, sottolinea la natura integrativa e sussidiaria della norma rinviando alla legge quanto alla determinazione degli altri casi in cui è autorizzato l’uso delle armi o di altro mezzo di coazione fisica.
Il riferimento specifico al pubblico ufficiale come destinatario della causa di giustificazione impone che l’uso dell’arma sia teso all’ adempimento di un dovere del proprio ufficio oppure ad eliminare l’ostacolo che si contrappone tra il pubblico ufficiale e il dovere stesso. Essa dunque non opera se il soggetto ha agito per un fine privato o nell’esercizio di una facoltà, e non di un dovere. I mezzi di coazione devono essere inoltre quelli indicati dalle disposizioni di servizio o comunque strumentali rispetto alla realizzazione del dovere.
Due sono le ipotesi in cui è considerato legittimo ricorrere all’uso delle armi: quando il pubblico ufficiale deve respingere una violenza – che può essere tanto diretta contro il pubblico ufficiale quanto contro cose o persone che egli ha il dovere istituzionale di proteggere– o vincere una resistenza.
Requisiti indispensabili sono la necessità e la proporzionalità. Necessità significa che la violenza da respingere e la resistenza da vincere devono essere di portata tale da essere obbligato il ricorso alle armi. La proporzionalità, dall’altra parte, richiede una valutazione caso per caso degli interessi contrapposti in considerazione della condotta del pubblico ufficiale rispetto al pericolo derivante dalla violenza o resistenza.
Questione dolente e molto discussa è l’operatività della norma in caso di resistenza passiva o di fuga. Infatti, per anni la giurisprudenza ha escluso l’applicabilità dell’articolo 53 in suddette ipotesi, sostenendo che la norma, pur non specificandolo, faccia riferimento solo alla resistenza attiva e non a quella passiva, mancando nel secondo caso qualsiasi connotazione fisica. Tale conclusione, tuttavia, risulta troppo semplicistica e penalizzante per il pubblico ufficiale. La giurisprudenza più recente, così, ha escluso qualsiasi rilevanza della differenza tra resistenza attiva o passiva, preferendo leggere piuttosto la questione alla luce del principio di proporzionalità. Tale impostazione ha portato ad ammettere, per esempio, l’utilizzo delle armi a scopo intimidatorio contro il fuggitivo.
La proporzionalità non opera, però, rispetto alla gravità del reato, ma rispetto alle modalità concrete della fuga e della resistenza. Il Tribunale di Bari, infatti, ha ritenuto di escludere l’eccesso colposo nel caso in cui si sia ricorso all’uso delle armi “al fine di arrestare la pericolosa condotta del conducente di un’autovettura in folle corsa che abbia messo a repentaglio pedoni ed altre autovetture in circolazione, senza arrestarsi alle intimazioni d’alt dei militari intervenuti.”
La disposizione, poi, va letta anche alla luce dell’articolo 2 della Cedu, in tema di protezione del diritto alla vita di ciascun individuo. La norma esclude la violazione di tale diritto ogni qual volta il ricorso all’uso della forza è reso assolutamente indispensabile dalla necessità di assicurare la difesa di qualsiasi persona contro una violenza illegale, di eseguire un arresto legale o impedire un’evasione e di reprimere una sommossa o insurrezione. La Suprema Corte nel 2003 ha ritenuto l’articolo 2 immediatamente applicabile nel nostro ordinamento, e specificamente nel caso di fuga e prescindendo dal principio di proporzionalità.
La Corte ha affermato inoltre che “… qualora si verifichi un evento più grave di quello voluto, ciò rientra nel rischio insito nell’uso delle armi da parte del pubblico ufficiale, e di conseguenza non può essere posto a carico del medesimo. L’esimente putativa dell’uso legittimo delle armi può ravvisarsi, secondo una valutazione ex ante, quando l’agente abbia ritenuto per errore di trovarsi in una situazione di fatto tale che, ove fosse stata realmente esistente, egli sarebbe stato nella necessità di fare uso delle armi.”
Non manca, però, chi ha criticato questa pronuncia sia in termini di applicabilità immediata dell’articolo 2 della Cedu, sia mettendo in dubbio la compatibilità di tale portato normativo con la nostra Costituzione, la quale considera comunque prioritario il diritto alla vita del fuggitivo rispetto all’esigenza del suo arresto. È invece sulla base di una lettura integrata e coordinata dei criteri di necessità e proporzionalità e delle norme della Costituzione e della Cedu che si deve discutere l’ammissibilità del ricorso all’uso delle armi in caso di fuga.
In conclusione, l’uso delle armi deve ritenersi legittimo in caso di fuga solo quale extrema ratio e quando le modalità di fuga siano tali da porre in pericolo l’incolumità di terzi o dei pubblici ufficiali medesimi.