24 Marzo 2025
24 Marzo 2025

Il lungo percorso del “ragionevole dubbio”.

Lo standard dell’ “al di là di ogni ragionevole dubbio”: una breve rassegna sul suo percorso evolutivo

L’art. 533 co. 1 c.p.p., così come novellato dalla c.d. Legge Pecorella (art. 5 l. 20 febbraio 2006, n. 46), introduce il principio dell’ al di là di ogni ragionevole dubbio : «Il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio». Si tratta di un criterio mutuato dalla regola “beyond a reasonable doubt” degli ordinamenti di common law.

L’introduzione dell’al di là di ogni ragionevole dubbio è stata accolta con entusiasmo da una parte accreditata della dottrina, definendola una rivoluzione copernicana del sistema delle prove. Tale opinione, tuttavia, non sembra pienamente condivisibile.

Innanzitutto, è difficile poter parlare di una “rivoluzione”, non essendo il ragionevole dubbio una novità della Legge Pecorella ma, come più volte chiarito da numerose pronunce della Suprema corte, l’art. 533 co.1 va a positivizzare un principio già ben noto alla giurisprudenza e al quale spesso essa ha fatto riferimento. Si tratterebbe dunque di una norma dal carattere descrittivo e non sostanziale. La Sez . IV della Cassazione, con sentenza 6 febbraio 2007, n. 12799, per esempio, definisce il ragionevole dubbio come un «principio immanente nel nostro ordinamento, [..], secondo cui la condanna è possibile soltanto quando vi sia la certezza processuale della responsabilità dell’imputato».

Già negli anni ’70 e ’80, infatti, la giurisprudenza ricorreva al ragionevole dubbio con riferimento agli istituti della prova indiziaria e dell’assoluzione per insufficienza delle prove. Risalgono agli anni ’80, nello specifico, le prime definizioni del ragionevole dubbio come “indeterminatezza probatoria”, “dubbio oggettivo”, e non semplice congettura soggettiva.

Negli anni ’90 l’al di là del ragionevole dubbio viene valorizzato da varie decisione come standard probatorio della pronuncia di condanna in contrapposizione ai “gravi indizi di colpevolezza” delle misure cautelari, mentre nei primi anni 2000 il principio è al centro del dibattito sulla prova del nesso di causalità.

Bisognerà aspettare il 2002 con la sentenza Franzese (Cass. Sez. un. 10 luglio) per avere una prima svolta decisiva in materia. Della decisione si può richiamare il seguente emblematico passo: «l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza probatoria, quindi il plausibile e ragionevole dubbio, fondato su specifici elementi che in base all’evidenza disponibile lo avvalorino nel caso concreto, […] non può che comportare la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio stabilito dall’art. 530 comma 2 c.p.p., secondo il canone di garanzia “in dubio pro reo”». Si comprende,dunque, che il ragionevole dubbio si riferisce ad una situazione di insufficienza probatoria oppure alla presenza di prove contraddittorie, nel senso che è possibile ricostruire una ipotesi alternativa rispetto a quella di colpevolezza. Nel caso in cui non si raggiunga quella situazione di certezza ipotizzata dall’art. 533 co.1 , dunque, al giudice non resterà che prosciogliere con la formula dell’art. 530 co.2 , cioè per mancanza, insufficienza o contraddittorietà della prova.

Successivamente alla riforma Pecorella, ad un primo momento in cui la codificazione viene percepita come meramente descrittiva e non innovativa, hanno seguito due sentenze significative in materia, che hanno riempito di significato il principio del ragionevole dubbio.

La sentenza Franzoni del 2008, coerentemente con pronunce precedenti che vedevano il dubbio ragionevole come indeterminatezza probatoria, chiarisce che l’art. 533 co.1  « impone di pronunciare condanna quando il dato probatorio acquisito lascia fuori solo eventualità remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili in rerum natura ma la cui concreta realizzazione nella fattispecie concreta non trova il benché minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana».

In questo senso anche la sentenza Durante del 12 novembre 2009 (sez. IV Cass.) :« per pervenire alla condanna, il giudice non solo deve ritenere non probabile l’eventuale diversa ricostruzione del fatto che conduce all’assoluzione dell’imputato ma deve altresì ritenere che il dubbio su questa ipotesi alternativa non sia ragionevole (deve cioè trattarsi di ipotesi non plausibile o comunque priva di qualsiasi conferma)». La Cassazione, cioè, si ispira al principio secondo il quale è meglio assolvere un colpevole che condannare un innocente.

Nel 2011 la Cassazione fa un ulteriore passo in avanti: per avere la certezza della colpevolezza dell’imputato al di là di ogni ragionevole dubbio è necessario superare i dubbi “interni” e i dubbi “esterni”. Ciò significa che l’ipotesi prospettata dal PM deve essere coerente e autosufficiente ( nel senso che deve spiegare tutti i fatti necessari ai fini del giudizio di colpevolezza) e, allo stesso tempo, deve mancare un’alternativa esplicabile secondo la razionalità logica che si contrapponga all’ipotesi di accusa. In sostanza , si deve sostituire all’ “epistemologia verificazioni sta”, limitata alla ricerca della coerenza logica dell’ipotesi accusatoria, l’ “epistemologia falsificazionista”: l’ipotesi di accusa deve essere soggetta a sistematici tentativi di confutazione, nel senso che le prove d’accusa vanno valutate come se l’imputato fosse innocente (cit. F. M. IACOVIELLO).

Il ragionevole dubbio, inoltre, non può essere considerato uno standard probatorio. Esso è nato negli ordinamenti di common law, in sistemi cioè in cui la decisione viene presa da una giuria composta da non professionisti e senza motivazione alcuna. In un ordinamento del genere il legislatore necessariamente deve assicurarsi che il convincimento dei giurati si formi correttamente: è il loro stato mentale ad essere al centro dell’attenzione.

Nel nostro ordinamento, invece, lo stato mentale dei giudici non conta: ciò che conta è unicamente la motivazione, essendo la decisione il risultato dell’applicazione di un metodo legale.

Al contrario,se accettassimo l’idea che il ragionevole dubbio è uno standard probatorio, allora ci sarebbero ipotesi in cui la soluzione sarebbe obbligata. Basti pensare al caso di assoluzione in appello e ricorso in Cassazione per vizio di motivazione da parte del PM. Se la classificazione del criterio come standard probatorio è corretta, allora necessariamente si dovrebbe pronunciare l’assoluzione dell’imputato, essendo il proscioglimento in primo grado sufficiente per configurare un ragionevole dubbio.

Se, invece,  –  come si ritiene – si tratta di un metodo legale, allora in una tale situazione non ci sarebbe alcun ragionevole dubbio: la difformità delle decisioni dipende dalla scorretta applicazione del criterio da parte di uno dei giudici.

Si deve chiarire inoltre, come più volte ribadito dal giudice di legittimità, che il ragionevole dubbio non va a snaturare il carattere del giudizio di cassazione, continuando esso a vertere sul diritto e non sul fatto: la cassazione non potrebbe comunque procedere alla rilettura degli elementi di fatto posti alla base della decisione.

La codificazione del criterio del ragionevole dubbio, comunque, ha posto un punto fermo alle lunghe e annose discussioni dottrinali e giurisprudenziali sul contenuto di tale criterio, registrandosi, tra l’altro, anche un notevole aumento delle pronunce basate su tale principio.

 

 

 

POTREBBE INTERESSARTI