Il nostro codice penale dedica ampio spazio alla disciplina dell’ubriachezza, analizzandone minuziosamente caratteristiche, implicazioni e differenziazioni. Tra l’articolo 87 e il 95 c.p., infatti, vengono prese in considerazione le varie categorie in cui tale fenomeno può diversificarsi, dando origine ad un quadro normativo particolarmente dettagliato e diversificato.
Ubriachezza accidentale
L’art. 91 c.p., rubricato Ubriachezza derivata da caso fortuito o da forza maggiore, prevede che “non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva la capacità di intendere e di volere, a cagione di piena ubriachezza derivata da caso fortuito o da forza maggiore. Se l’ubriachezza non era piena, ma era tuttavia tale da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità di intendere e di volere, la pena è diminuita”.
Questa norma fornisce un dato fondamentale, ovvero che SOLO l’ubriachezza accidentale è idonea ad escludere l’imputabilità. La ratio sottesa a tale previsione è quella di ribadire la non attribuibilità sul piano psicologico di qualsivoglia addebito a un soggetto versante, incolpevolmente, in condizione di incapacità di intendere e di volere. Uno dei casi di scuola più frequentemente utilizzati per chiarire questa figura di qualificazione è quello dell’operaio di una distilleria il quale, a causa di un guasto all’impianto di depurazione, inali senza sua colpa i vapori all’interno della struttura: fattispecie che ricade proprio nell’alveo del caso fortuito/forza maggiore indicato in apertura.
Ubriachezza volontaria o colposa ovvero preordinata
L’art. 92 c.p. recita: “L’ubriachezza non derivata da caso fortuito o forza maggiore non esclude nè diminuisce la imputabilità. Se l’ubriachezza era preordinata al fine di commettere il reato, o di prepararsi una scusa, la pena è aumentata”.
La norma ribadisce, dunque, quanto specificato prima: l’ipotesi di ubriachezza accidentale è l’unica a valere come causa di esclusione della punibilità.
L’ipotesi delineata da questo articolo costituisce, in realtà, una specificazione dell’art. 87 c.p., rubricato Stato preordinato d’incapacità di intendere o di volere, in cui emerge la tematica della cd. actio libera in causa. Con questa locuzione si intende fare riferimento ai casi in cui l’autore, pur non essendo in grado di intendere e di volere al momento della commissione del fatto, lo sia invece stato in un momento antecedente in cui, in pieno possesso delle sue facoltà, aveva tenuto una condotta diretta a programmare lo stato di incapacità successivo (cd. actio praecedens). Nel corso degli anni, tuttavia, non sono mancate dispute in seno alla dottrina relativamente a questa figura: alla tesi che individua, nei casi previsti dall’art. 87, l’inizio dell’azione esecutiva del reato nel momento in cui l’agente pone in essere la condizione necessaria alla sua realizzazione (perdita della capacità di intendere e di volere), sono state mosse vibranti critiche, inerenti l’eccessiva dilatazione temporale dei margini della cd. attività esecutiva del reato.
La dottrina risulta divisa anche per quanto riguarda il titolo della responsabilità per le azioni compiute in stato di incapacità non preordinato alla commissione di un reato, ma comunque discendente dalla perdita del controllo delle proprie facoltà psichiche. Se da un lato, infatti, si sostiene che l’autore del reato debba rispondervi con il medesimo elemento psicologico con cui il fatto risulta concretamente commesso, dall’altro lato si ritiene che per determinare il titolo della responsabilità debba guardarsi all’actio praecedens. Dunque, si tratterà di dolo eventuale nel caso in cui l’agente si sia rappresentata la possibilità di commettere il reato, accettando il rischio derivante dall’essersi posto volontariamente in stato di incapacità; diversamente, si rileverà la colpa quando il soggetto, pur non essendosi rappresentata tale possibilità, avrebbe potuto rappresentarsela.
Ubriachezza abituale
Discorso a parte merita l’art. 94 c.p., il quale recita: “Quando il reato è commesso in stato di ubriachezza, e questa è abituale, la pena è aumentata.
Agli effetti della legge penale, è considerato ubriaco abituale chi è dedito all’uso di bevande alcoliche e in stato di frequente ubriachezza.
L’aggravamento di pena stabilito nella prima parte di questo articolo si applica anche quando il reato è commesso sotto l’azione di sostanze stupefacenti da chi è dedito all’uso di tali sostanze“.
Il trattamento tutt’altro che mite che il vigente codice penale riserva all’ubriaco abituale è un retaggio del legislatore del 1930, decisamente refrattario ai fenomeni connessi al consumo di sostanze alcoliche o stupefacenti. Parte della dottrina, tuttavia, non ha mancato di muovere sferzanti critiche a questa disciplina: prevedere un regime di tal fatta nei confronti di questa categoria di soggetti (basti pensare alla possibilità di applicazione, oltre alla pena, anche della libertà vigilata, ex art. 221 c.p.) significa far rivivere nel nostro ordinamento la cd. colpa d’autore (o colpa per il modo d’essere) di matrice tedesca, stimolando dunque un quesito che deve far riflettere: si risponde penalmente per ciò che si è commesso o per ciò che si è ?