Le intercettazioni sono un mezzo di ricerca della prova, previsto dal codice di procedura penale italiano agli articoli 266 e ss.
Esse vengono utilizzate al fine di prendere conoscenza di una conversazione o di una comunicazione riservata tra soggetti terzi.
Il codice disciplina solo alcune forme di intercettazione, segnatamente, quelle “ambientali” (che hanno ad oggetto colloqui tra persone e, per questo, vengono adoperate, ad esempio, microspie), quelle telefoniche e quelle telematiche.
Sulla base di questa categorizzazione, è evidente come il legislatore non abbia regolato a livello normativo le intercettazioni che abbiano ad oggetto le immagini (videoregistrazioni o videoriprese, ad esempio).
Posto questo, si può desumere che le intercettazioni di immagini vengano considerate “prove atipiche”, ex art. 189 c.p.p. e, per questo motivo, il loro utilizzo può comportare alcune problematiche.
In questo ambito, la sentenza della Cassazione SU, 28 marzo 2006, n. 26795, c.d. “sentenza Prisco”, ha rappresentato un intervento importante, in termini di individuazione di una disciplina e criteri di utilizzazione delle stesse.
Per prima cosa, è importante distinguere se le intercettazioni di immagini avvengano in luogo pubblico o privato.
Se la scelta ricade in un luogo pubblico, le incertezze non si presentano, dato che in tale evenienza non occorre neppure un provvedimento motivato della autorità giudiziaria, “non sussistendo, in particolare, in ragione del luogo di effettuazione della captazione, alcuna esigenza di riservatezza che osti all’acquisizione delle immagini e/o comunque imponga una particolare disciplina procedimentale di garanzia”.
Se la scelta ricade, invece, in un luogo di privata dimora, è necessario impostare un ragionamento di tipo diverso, per capire come comportarsi e che disciplina attuare.
Il “domicilio” è tutelato dalla Costituzione italiana (art. 14), ma nella Carta viene esclusa l’esistenza di un divieto assoluto della forma di intrusione domiciliare in questione.
Per rendere legittime le intercettazione, la Cassazione rende, quindi, edotti del fatto che è necessario distinguere l’oggetto della ricerca a seconda che si tratti di comportamenti comunicativi o non comunicativi.
Le videoregistrazioni di comportamenti non comunicativi in luoghi di privata dimora, in quanto prove atipiche, sono vietate dalla legge perché assunte in violazione dell’art. 14 Cost.
Se invece (ed è questo il punto di svolta) le intercettazioni hanno ad oggetto comportamenti comunicativi, anche se sono in luoghi di privata dimora, sono ammesse in quanto assimilabili, per via interpretativa, alle intercettazioni ambientali ex art. 266, co. 2, c.p.p.
Le intercettazioni di immagini, dunque, non possono essere utilizzate in luogo di privata dimora, a meno che non si tratti di captare comportamenti comunicativi.
Il nodo da sciogliere, a questo punto, è capire innanzitutto cosa si intenda per “privata dimora”, dal momento che la complicazione nell’utilizzo delle intercettazioni di immagini deriva essenzialmente da questo.
È vero che il codice penale parla di “domicilio” all’art. 614, però la giurisprudenza di questa Corte ha adottato una diversa definizione.
La privata dimora certamente presuppone un rapporto tra la persona e il luogo, con la conseguente nascita del diritto di escludere la altrui presenza; ma ciò non basta.
Il suddetto rapporto deve inoltre essere in grado di giustificare la tutela del luogo, anche quando la persona è assente.
“In altre parole la vita personale che vi si svolge, anche se per un periodo di tempo limitato, fa sì che il domicilio diventi un luogo che esclude violazioni intrusive, indipendentemente dalla presenza della persona che ne ha la titolarità”.
La giurisprudenza, dunque, ha aggiunto il requisito della “stabilità”, come condizione in grado di trasformare un luogo in un domicilio ed è solo con tale connotato che il luogo può assumere autonomia rispetto alla persona che ne ha la titolarità.
Nel caso trattato dalla sentenza Prisco, nessuna tutela di carattere domiciliare poteva ricollegarsi all’uso che veniva fatto del privè del locale in questione, in quanto mancava un minimo di stabilità e continuatività.
Deve quindi concludersi che, ad esempio, una toilette pubblica non può essere considerata un domicilio neppure nel tempo in cui è occupata da una persona, anche se evidentemente quella persona ha il diritto di escludere la presenza altrui; difetta, infatti, il requisito della stabilità.
Questi luoghi non costituiscono dimora privata, però è bene sottolineare che, secondo questa Corte, non sono nemmeno del tutto assimilabili a luoghi pubblici, poiché in questi è sempre garantita la tutela della riservatezza. Se le intercettazioni vengono effettuate in questi posti, si tratta pur sempre di prove atipiche e perciò devono essere assunte con le modalità e le garanzie di cui all’art. 189 c.p.p., o in questi casi è necessaria una previa autorizzazione della autorità giudiziaria.
Infine, dei “comportamenti comunicativi” non esiste una univoca definizione, con la conseguenza che sarà necessario accertare volta per volta il loro carattere e la relativa utilizzabilità, se si tratta di un luogo di privata dimora.
In generale si ritiene che siano comportamenti finalizzati a trasmettere il contenuto di un pensiero con la parola, i gesti o le espressioni.