L’art. 44 c.p. recita: “Quando, per la punibilità del reato, la legge richiede il verificarsi di una condizione, il colpevole risponde del reato, anche se l’evento, da cui dipende il verificarsi della condizione, non è da lui voluto”.
Storicamente, l’istituto nasce con una duplice funzione: da un lato, delimitare e ridurre la rilevanza penale di determinati comportamenti, nel senso di prevedere una punibilità non incondizionata, ma subordinata al verificarsi di circostanze ulteriori; dall’altro, ad esso è stata riconosciuta una connotazione garantistica, avendolo qualificato come intimamente connesso al principio di legalità, perché preposto a sottrarre al potere discrezionale del giudice siffatte valutazioni di convenienza e opportunità.
In base all’incidenza sul piano degli interessi tutelati, la dottrina è solita distinguere tra:
- CONDIZIONI ESTRINSECHE DI PUNIBILITÀ, che nulla aggiungono alla lesione del bene protetto dalla norma incriminatrice, riflettendo mere valutazioni di opportunità connesse ad un interesse “esterno” al profilo offensivo del reato (si pensi, ad esempio, alla presenza del reo nel territorio dello Stato ai fini della punibilità ex artt. 9-10 c.p.);
- CONIZIONI INTRINSECHE DI PUNBILITÀ, le quali incidono sull’interesse protetto, caratterizzandosi come una forma di professione o aggravamento dell’offesa, già implicita nella commissione del reato (si pensi all’art. 264 c.p., che incrimina l’infedeltà negli affari di Stato solo se «dal fatto possa derivare nocumento all’interesse nazionale»).
Il nodo maggiormente problematico dell’istituto in parola è costituito dalla loro compatibilità col principio costituzionale di colpevolezza.
A tal proposito, la Corte Costituzionale (sent. 364/88) ha ritenuto che l’art. 27 Cost. non contenga un divieto tassativo di responsabilità oggettiva, occorrendo pertanto che gli «elementi più significativi della fattispecie» – ai quali ricondurre il disvalore o il maggior disvalore dell’azione tipica – debbano essere coperti almeno dalla colpa dell’agente. Di conseguenza, le condizioni cd. intrinseche rispetterebbero il principio di colpevolezza solo ove soggettivamente riconducibili all’agente almeno in termini di colpa. Inoltre, la Consulta ha successivamente specificato che tale esigenza riguarda «tutti e ciascuno degli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie», i quali, oltre ad essere soggettivamente collegati all’agente, dovranno anche essere a lui «rimproverabili e cioè anche soggettivamente disapprovati» (sent. 1085/88).
Per parte della dottrina, tali pronunce hanno portato alla dissoluzione delle condizioni di punibilità cd. intrinseche, facendole confluire a pieno titolo nel fatto tipico. Dunque, l’art. 44 c.p. si riferirebbe alle sole condizioni estrinseche, che alcuni Autori propongono di far confluire nella categoria delle condizioni di procedibilità, poiché, ponendosi queste su di un piano esteriore rispetto all’offesa, la loro imputazione potrebbe effettuarsi prescindendo da criteri di tipo subiettivo.
Altra parte della dottrina rifiuta tale proposta, ritenendo che le condizioni obiettive di punibilità si riferiscano non alla punibilità del fatto, ma alla conoscibilità dello stesso da parte del giudice (senza contare che, se avessero natura processuale, non si spiegherebbe perché il legislatore le abbia inserite nel capo relativo alla struttura del reato). Su questa scia, è stato prospettato di superare la classificazione tra condizioni intrinseche ed estrinseche, perché queste soddisfano interessi esterni rispetto al bene giuridico sottostante al reato, e quindi risultano ininfluenti rispetto all’offesa tipica. Seguendo questo iter, le condizioni in parola avrebbero la sola funzione di ridurre la rilevanza penale di fatti altrimenti punibili, per cui, avvantaggiando il reato, non porrebbero alcun problema di imputazione soggettiva (restando assolutamente estranee e indifferenti al principio di colpevolezza).