Ndr: Questo è il secondo di due articoli volti ad analizzare la fattispecie illecita di ricettazione pre-fallimentare.
In chiusura del precedente articolo, si è accennato ad un acquisto di tipo speculativo che, in considerazione della necessità di denaro dell’imprenditore posto di fronte alla ineluttabilità del fallimento, sfoci in una vendita rovinosa per quest’ultimo, per effetto della rilevante sproporzione tra ciò che l’acquirente riceve ed il prezzo che corrisponde[1].
Al fine di verificare la presenza di questa rilevante sproporzione, il giudice non sarà vincolato a criteri predeterminati in maniera rigida, come avviene nel caso della lesione ultra dimidium cui fa riferimento l’art. 1448 c.c. per l’azione generale di rescissione per lesione, essendo rimesso al suo libero convincimento la valutazione di tutte le circostanze di fatto idonee a stabilire quando il prezzo pagato dal «ricettatore» sia notevolmente inferiore rispetto al valore corrente del bene comprato[2].
Per questa sola condotta è prevista un’aggravante, dall’ultimo comma della norma in esame, presente laddove l’acquirente sia un imprenditore che esercita un’attività di tipo commerciale.
Avendosi la fattispecie qui in esame a mezzo dello storno di beni dal patrimonio tutelato, in misura tale da impedirne l’apprensione da parte degli organi fallimentari, si è indicato che oggetto delle condotte qui regolate devono essere merci od altri beni di proprietà del fallito che siano già entrati a par parte del suo patrimonio.
Non sussiste, allora, il reato in esame qualora una banca trattenga somme incassate su mandato irrevocabile, per la riscossione di crediti, conferitole da una società poi fallita.
Infatti, in una tale evenienza la condotta della banca non incide su somme di denaro già entrate nel patrimonio del fallimento e l’eventuale inadempimento della stessa al versamento di queste somme in favore del fallimento, dovuto a contestazioni sulla esistenza di questa obbligazione, non determina una situazione di distacco, bensì dà luogo a un tipo di controversia che può e deve trovare soluzione in sede civile[3].
Analogamente, laddove si tratti di beni di cui l’imprenditore abbia il mero possesso o la mera detenzione in quanto in questi casi la loro sottrazione non è idonea a ledere le ragioni dei creditori.
In tale ambito, allora, dovendo la condotta essere idonea a ledere le ragioni dei creditori, avranno rilievo solo quei beni del fallito che possono essere soggetti alla garanzia creditoria.
Risultano, pertanto, esclusi quelli che, ai sensi dell’art. 46 l.f., non sono compresi nel fallimento. Rilevano invece, in questa sede, quei beni che, pur non essendo intestati all’imprenditore fallito, possono essere acquisiti al fallimento come, in via esemplificativa, ex art. 69 l.f. i beni acquistati dal coniuge.
E’ stato, quindi, valutato come oggetto di questo reato un bene acquistato dal fallito con il patto di riservato dominio considerato non solo che la vendita con riserva di proprietà, nel caso di risoluzione per inadempimento del compratore, determina a favore di quest’ultimo il diritto alla restituzione, ai sensi dell’art. 1526 c.c., delle rate già riscosse, ma anche il potere del curatore di subentrare nel contratto, con l’autorizzazione del giudice delegato, e di acquisire detti beni al fallimento[4].
[1] Cass., sez.I, ord. 31.1.1967, n. 482, Villa, in Foro It., 1968, II, 8 ed in Giust. pen., 1968 3, 265 ed in Foto It., 1968, II, 8.
[2] Cass., sez. V, 22.10.1991/29.1.1992, n. 863, Marra, in Giur. it., 1993, II, 250 ed in Riv. pen. ec., 1992, 607.
[3] Cass. 7891/1995.
[4] Cass., sez. V, 22.10.1991/29.1.1992, n. 863, Marra, in Giur. it., 1993, II, 250 ed in Riv. pen. ec., 1992, 607.