Ndr: Questo è il primo di due articoli volti ad analizzare la fattispecie illecita di ricettazione pre-fallimentare.
Il terzo comma dell’art. 232 della Legge Fallimentare prevede due fattispecie di reato conosciute, sia in dottrina che in giurisprudenza, come ipotesi di ricettazione fallimentare.
La prima è la cd. ricettazione pre-fallimentare, regolata dal n. 2 del summenzionato comma, ove si prevede che è punito con la reclusione da uno a cinque anni chiunque «essendo consapevole dello stato di dissesto dell’imprenditore distrae o ricetta merci o altri beni dello stesso o li acquista a prezzo notevolmente inferiore al valore corrente, se il fallimento si verifica».
Con questa norma si è, innanzitutto, voluto rafforzare la tutela dei creditori, punendo coloro i quali, approfittando della situazione di dissesto dell’imprenditore, realizzano illeciti lucri in danno delle ragioni dei creditori e, inoltre, si è voluto assicurare agli organi del fallimento l’apprensione dei beni soggetti all’esecuzione fallimentare, garantendo il regolare svolgimento della procedura concorsuale[1].
Soggetto attivo può essere chiunque tranne l’imprenditore commerciale in stato di dissesto e coloro i quali siano ad esso equiparati (ex artt. 222, 223, 227 L.F.) dal momento che questi soggetti, con la condotta qui regolata, vengono a commettere il delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale. Analogamente non può commettere questo reato il curatore in quanto in una tale ipotesi sarebbe configurabile la fattispecie di peculato[2].
Dal punto di vista oggettivo, il fenomeno in esame si può articolare in tre diversi tipi di condotte.
La prima è data dalla distrazione di merci od altri beni.
Con essa si suole far riferimento ad una formula generica che comprende tutte quelle condotte che portano a distogliere i beni dell’imprenditore dalla loro funzione di garanzia per i creditori, destinandoli a finalità diverse[3].
In particolar modo, la destinazione richiede che l’agente abbia il possesso dei beni e che compia un atto di disposizione in contrasto con le finalità della procedura. Possesso che può essere presente a qualsiasi titolo anche diverso da quello dell’essere il custode del bene[4].
Rispetto alla distrazione di cui all’art. 216 L.F. la caratteristica di questa fattispecie è che con essa il soggetto non opera su beni propri, bensì su beni altrui.
Dal punto di vista finalistico, l’atto di distrazione può avvenire, innanzitutto, per appropriarsi dei beni del fallimento avendo, allora, questa condotta un contenuto decisamente appropriativo. Contenuto, quest’ultimo, che non è necessario, potendo questa essere presente anche nel caso in cui la distrazione da parte del soggetto attivo sia avvenuta con l’intenzione di conservare questi beni per poi restituirli al fallito. Fallito che, però non deve risultare partecipe del reato in quanto, in caso contrario, ricorrerebbe per entrambi il delitto di bancarotta patrimoniale per distrazione.
In modo analogo si è valutata la presenza di una distrazione, qui rilevante, nel caso del funzionario di banca che trasferisca su un conto interno – rendendola indisponibile – una somma esistente su di un libretto al portatore, di proprietà del fallito, costituito in pegno a garanzia dei debiti di una società verso la banca.
Ciò in quanto con questa condotta viene compiuto un atto di disposizione illegittimo, stornando i beni di cui la banca aveva il possesso, dal patrimonio del fallito[5].
La seconda condotta qui regolata è data dalla ricettazione di merci od altri beni.
In relazione a tale espressione si è specificato come questa non abbia il significato proprio alla condotta costitutiva del delitto comune di ricettazione non essendo, allora, richiesto per la sua sussistenza che l’agente abbia ricevuto beni acquistati dall’imprenditore con mezzi costituenti reato.
Con essa si intende far riferimento all’accezione lessicale del verbo “dare ricetto”, che si ha ogni qual volta si occulti, si riceva o si tenga presso di sé clandestinamente o occultamente.
Ricettazione che può aversi in qualunque forma non essendo necessario che l’acquisto da parte del terzo integri gli estremi della compravendita, essendo penalmente rilevante ogni forma di acquisto, non soltanto la vendita, ma anche la permuta ed i contratti affini, purché danneggino il fallendo.
La terza condotta ha ad oggetto l’acquisto del bene dell’imprenditore in stato di dissesto ad un prezzo notevolmente inferiore al valore corrente, intendendosi con valore corrente il valore di realizzo che il bene può avere se venduto.
In particolare, per questa nozione si è fatto riferimento ad un acquisto speculativo che, in considerazione della necessità di denaro dell’imprenditore posto di fronte alla ineluttabilità del fallimento, si concreti in una vendita rovinosa per quest’ultimo, per effetto della rilevante sproporzione tra ciò che l’acquirente
[1] Cass., sez. V, 14.5.1976, n. 12229.
[2] In questo senso, Giuliani e Ballestrino.
[3] Cass., sez. V, 13.4.2005, n. 21081.
[4] Cass., sez. V, 17.6.1986, n. 9196.
[5] Cass., sez. V, 20.3.1987, n. 5092.