Il tema della valutazione delle dichiarazioni del minorenne, testimone e/o vittima di reato, è uno dei più delicati, se si tiene conto non solo della fragilità psico- fisica del soggetto in questione, ma anche dei problemi di credibilità (e conseguente attendibilità) di questa figura.
Dato il silenzio che il legislatore ha sempre riservato in merito a questa materia, oggi la giurisprudenza di merito e di legittimità ha deciso di farsi carico di questo fardello e ha, così, dettato alcuni criteri valutativi, per facilitare il compito al giudice che si fosse trovato a dover esprimere un giudizio sulla dichiarazione resa dal minorenne.
In primo luogo, è doveroso accertarsi che il metodo utilizzato sia adatto per garantire la genuinità e l’attendibilità della prova.
Una volta svolto il controllo sul metodo, è bene verificare l’attitudine a testimoniare del minorenne, cioè la sua generale capacità a recepire le informazioni, ricordarle e raccontarle.
Una volta superato l’ostacolo della scelta del metodo e delle altre questioni, si deve passare ad una attenta valutazione del contenuto di quelle dichiarazioni. Giurisprudenza unanime ritiene sia ‹‹sufficiente che le affermazioni siano state sottoposte ad accurato ed attento vaglio critico, volto ad escludere che esse possano essere frutto di fantasia, suggestione ovvero di immaturità psichica›› (Cass. pen., 19 dicembre 1986, Ascia, in Riv. Pen., 1987, p. 1130).
In merito alla valutazione sul contenuto, questa giurisprudenza non ha dato indicazioni precise in termini pratici. Sono diventati, dunque, rilevanti alcuni criteri elaborati dalla letteratura scientifica e dall’esperienza: la coerenza logica, la costanza delle dichiarazioni rese a soggetti diversi, l’uso di un linguaggio coerente all’età e alla cultura del minore, il racconto di ricordi precisi e collocati nel tempo e l’assenza di contraddizioni. Se il giudice valuta che tutti questi fattori sono presenti nell’apporto conoscitivo del minorenne, essi possono allora fungere da indicatori circa l’attendibilità della prova.
Una volta che siano state raccolte le dichiarazioni che il giudice ha valutato come attendibili, rimane da chiedersi se esse siano sufficienti a fondare una accusa di colpevolezza nei confronti dell’imputato o se, invece, siano necessari altri elementi probatori.
Una giurisprudenza da poco citata sostiene che, ai fini dell’accusa, non siano necessari riscontri oggettivi esterni, ma solo un attento vaglio critico che accerti che le dichiarazioni non siano frutto di suggestione o di fantasia (Cass. pen., 19 dicembre 1986, cit.). Nello stesso senso, un’altra giurisprudenza della Cassazione penale produce una apprezzamento di simile spessore sul fatto che, per quanto si tratti di una fonte fragile, non va tuttavia dimenticato che il mezzo di prova di cui si sta disquisendo è pur sempre la testimonianza e, dunque, non devono essere applicate regole diverse relativamente alla narrazione resa (Cass. pen., Sez. VI, sent., 23 giugno 2014, n. 27185, in Dir. Pen. e Proc., 2014, p. 947).
A discapito di quanto appena sostenuto, esistono altre pronunce che hanno scelto di adottare un atteggiamento più cauto. Esse asseriscono che quando si tratta di un testimone che non ha ancora raggiunto la maggiore età un solo vaglio critico di attendibilità non è sufficiente per fornire le basi per una sentenza sulla colpevolezza dell’imputato, in quanto sono necessari anche degli elementi di convalida ulteriori (Cass., sez. I, 30 novembre 1983, Papa, in Riv. Pen., 1984, p. 1092).
A conferma di questa ultima presa di posizione, anche alcuni autori di dottrina hanno sostenuto l’imprescindibilità di elementi oggettivi esterni. Vieppiù, quando ci si trovi nella situazione più grave e difficoltosa di un minorenne che, oltre ad aver assistito al compimento del reato di violenza sessuale, ne sia stato anche vittima, è stata elaborata una regola ancora più severa che prescrive la corroboration, cioè ‹‹una regola probatoria, elaborata sul piano valutativo, secondo la quale, quando si devono valutare le dichiarazioni di un minorenne che, nella maggior parte dei casi, è anche la persona offesa dal reato, è necessario un vaglio non solo di attendibilità intrinseca, ma anche di attendibilità estrinseca, con la conseguenza che se le dichiarazioni dell’offeso fanciullo non trovano conferma e non sono computabili con le altre risultanze processuali, il giudice non potrebbe concludere per la responsabilità dell’imputato›› (per la definizione, vedi CAMALDO L., La testimonianza dei minori nel processo penale: nuove modalità di assunzione e criteri giurisprudenziali di valutazione, in Ind. Pen., 2000, pp. 205-6).
Quanto appena esposto porta a credere che, nonostante in teoria non ci sia nessuna norma che imponga all’autorità giudicante di eseguire un doppio giudizio di attendibilità, nella pratica, una volta esaminato il bambino testimone, una valutazione di attendibilità intrinseca sia assolutamente necessaria, ma non sufficiente per fondare una ipotesi di accusa nei confronti dell’imputato, date le caratteristiche psicologiche della fonte di prova; anche se, in linea di principio, la narrazione del bambino potrebbe assumere lo stesso significato di quella del maggiorenne, una volta sottoposta ai medesimi criteri, nel caso concreto, il giudice è sempre spinto a cercare degli altri elementi che possano confermare quella ricostruzione dei fatti, senza i quali difficilmente emetterà una sentenza di condanna per l’imputato.