L’ingiusta detenzione è un istituto che ritrova il suo riconoscimento giuridico negli artt. 314-5 del codice di procedurale penale.
L’art. 314 c.p.p. recita come segue: ‹‹Chi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, ha diritto a un’equa riparazione per la custodia cautelare subita, qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave››.
Prima di procedere a considerazioni inerenti alla disciplina, è necessario capire il funzionamento dell’ingiusta detenzione.
In primo luogo, è utile distinguere i casi di riparazione per ingiusta detenzione da quelli di riparazione derivante da errore giudiziario.
Nel primo caso si fa riferimento alla detenzione subita prima dello svolgimento del processo (cautelare), mentre, nel secondo caso, si presuppone una condanna a cui sia stata data esecuzione e un successivo giudizio di revisione instaurato (a seguito di una sentenza irrevocabile di condanna).
Ai fini dell’attuazione dell’ingiusta detenzione, sono necessari dei presupposti.
Il presupposto per ottenere l’equa riparazione consiste nella ingiustizia sostanziale o nella ingiustizia formale della custodia cautelare subita.
Secondo quanto disposto dall’art. 314 c.p.p., l’ingiustizia sostanziale ricorre quando vi è proscioglimento con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato (comma 1).
Alla sentenza di assoluzione sono parificati la sentenza di non luogo a procedere e il provvedimento di archiviazione (comma 3).
L’ingiustizia formale (comma 2) ricorre, invece, quando la misura cautelare è stata applicata illegittimamente, cioè in assenza delle condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280 c.p.p., a prescindere dalla sentenza di assoluzione o di condanna.
È importante, inoltre, sottolineare che all’indagato, una volta che sia stato sottoposto ad ingiusta detenzione, è riconosciuto un vero e proprio diritto soggettivo ad ottenere una equa riparazione.
Rilevanti novità in materia di ingiusta detenzione sono state apportate dalla legge 16 dicembre 1999, n. 479, cosiddetta “Legge Carotti”.
In particolare, è aumentato il limite massimo di risarcimento, che oggi è di euro 516.456,90 ed è altresì aumentato il termine ultimo per proporre, a pena di inammissibilità, domanda di riparazione: da 18 a 24 mesi.
La domanda di riparazione per l’ingiusta detenzione deve essere presentata, a pena di inammissibilità, entro due anni dal giorno in cui la sentenza di assoluzione o condanna è diventata definitiva.
Dunque, nel caso in cui un soggetto sia stato preventivamente incarcerato nonostante la sua innocenza, gli viene riconosciuto il diritto ad una riparazione economica per il danno subito.
Ma di che danno si tratta?
La domanda in questione è importante, se si pensa, in particolare, all’evoluzione avvenuta al riguardo.
In sintesi, appare ovvia la liquidazione del danno patrimoniale, del danno morale e del danno biologico, inteso come compromissione della salute psicofisica del soggetto; forse, però, si è percepito non fosse sufficiente.
Per questo motivo, si è iniziato a prendere in considerazione la persona, i rapporti con il mondo (le conseguenze personali) e gli affetti (le conseguenze familiari).
Anche per l’ingiusta detenzione, si è dunque parlato di danno esistenziale, consistente nel “pregiudizio derivante dalla sottoposizione a processo, con una detenzione e una condanna ad una pena da espiare poi rivelatesi ingiuste, da cui conseguono la privazione della libertà personale, l’interruzione delle attività lavorative e di quelle ricreative, l’interruzione dei rapporti affettivi e di quelli interpersonali, il mutamento radicale peggiorativo e non voluto delle abitudini di vita” (Cass. pen. Sez. IV, 02 febbraio 2010, n. 6719).
Questa è, in breve, la disciplina della ingiusta detenzione.
Alla luce di quanto appena esposto, la domanda che si potrebbe formulare è se il risarcimento economico sia sufficiente, adeguato e giusto per soddisfare le conseguenze di una tale ingiustizia.
Non si sta discutendo solo di una ingiustizia dal punto di vista giuridico, ma anche di esperienza di vita (non) vissuta.
Considerando la situazione odierna delle carceri italiane, il tempo trascorso in galera non si può dire soddisfi il fine ultimo della pena, consistente nella rieducazione.
Le celle sono piccole, detengono un numero di carcerati maggiore di quello massimo, solitamente non ci sono veri e propri spazi ricreativi nei quali i carcerati possano esprimersi, non esiste l’intimità (né personale né interpersonale).
Questi sono solo alcuni spunti per rendersi conto cosa voglia dire veramente subire una ingiusta detenzione.
E, dunque, forse, il risarcimento economico del danno, qualsiasi esso sia, probabilmente non è sufficiente.
In conclusione, è strettamente necessario ricordare cosa la custodia cautelare comporti, da tutti i punti di vista, e che è una misura che deve essere utilizzata solo come extrema ratio.
Se è vero che i soldi non fanno la felicità, è vero anche che non restituiscono il tempo di vita perduto.