Il falso in bilancio trova spazio, all’interno del nostro ordinamento, nel Libro Quinto, Titolo XI, Capo I del Codice Civile, precisamente agli artt. 2621 e seguenti. In particolare, proprio l’articolo 2621, rubricato False comunicazioni sociali, prevedeva originariamente che “gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori, i quali, con l’intenzione di ingannare i soci o il pubblico e al fine di conseguire per sè o per altri un ingiusto profitto, nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali previste dalla legge, dirette ai soci o al pubblico, espongono fatti materiali non rispondenti al vero ancorchè oggetto di valutazioni ovvero omettono informazioni la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene, in modo idoneo ad indurre in errore i destinatari sulla predetta situazione, sono puniti con l’arresto fino a due anni”. La previsione normativa era arricchita da ulteriori dettagli: al comma 3, infatti, si specificava che “la punibilità è esclusa se le falsità o le omissioni non alterano in modo sensibile la rappresentazione della situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o dal gruppo economico al quale essa appartiene”. La punibilità era comunque esclusa “se le falsità o le omissioni determinano una variazione del risultato economico di esercizio, al lordo delle imposte, non superiore al 5% o una variazione del patrimonio netto non superiore all’1%”.
Elementi costitutivi
Dal momento che quello di falso in bilancio è un reato di pericolo concreto, non è richiesto l’effettivo verificarsi di un danno per i soci o i creditori. Trattasi di reato istantaneo, dunque esso si consuma nel momento e nel luogo in cui le comunicazioni sociali vengono portate a conoscenza dei destinatari.
I beni giuridici che la norma ha l’obiettivo di tutelare sono la trasparenza e la fiducia che i terzi ripongono nel contenuto delle comunicazioni sociali. Quello in esame è un reato proprio, dunque i soggetti attivi sono puntualmente menzionati in apertura di norma; proprio in questa prospettiva, sul piano della responsabilità è doveroso ricordare che l’art. 2639 c.c., rubricato Estensione delle qualifiche soggettive, dispone che “al soggetto formalmente investito della qualifica o titolare della funzione prevista dalla legge civile è equiparato sia chi è tenuto a svolgere la stessa funzione, sia chi esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione”.
Per quanto concerne l’elemento oggettivo, la condotta può consistere nell’omissione di rilevanti fatti materiali sulla situazione economica, finanziaria e patrimoniale che la legge sottopone a obbligo di comunicazione o nell’esposizione di fatti che non rispondono a verità.
Le novità introdotte dalla riforma
La legge 27 maggio 2015 n. 69 ha profondamente innovato la materia in esame. Innanzitutto occorre analizzare i neointrodotti articoli 2621-bis e 2621-ter, inerenti rispettivamente fatti di lieve entità e
la particolare tenuità.
Il primo dei due articoli prevede che “Salvo che costituiscano più grave reato, si applica la pena da sei mesi a tre anni di reclusione se i fatti di cui all’art. 2621 sono di lieve entità, tenuto conto della natura e delle dimensioni della società e delle modalità e degli effetti della condotta“. La lettera di questo articolo ha suscitato molteplici controversie interpretative, dal momento che taluni hanno ricondotto la fattispecie nel novero delle circostanze attenuanti, altri l’hanno considerata come una autonoma fattispecie di reato.
Tuttavia, dato che la norma non aggiunge elementi particolarmente innovativi rispetto a quanto già previsto dall’articolo 2621 se non sul piano della diminuzione della pena, pare preferibile la prima delle due classificazioni.
L’art. 2621-ter prevede invece che “Ai fini della non punibilità per particolare tenuità del fatto, di cui all’art. 131-bis del codice penale, il giudice valuta, in modo prevalente, l’entità dell’eventuale danno cagionato alla società, ai soci o ai creditori conseguente ai fatti di cui agli articoli 2621 e 2621-bis”.
Il contenuto di questa disposizione è perfettamente coerente con le esigenze deflattive del contenzioso e di economia processuale consacrate nel d.Lgs. 16/03/2015, n. 28, che ha dettato “Disposizioni in materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera m), della legge 28 aprile 2014, n. 67”, entrato in vigore il 2 aprile 2015.
La novità probabilmente più rilevante, però, riguarda la riformulazione e l’arricchimento del testo degli articoli 2621 e 2622 c.c.
Sostanzialmente il falso in bilancio, in seguito alla riforma, passa da contravvenzione a delitto, la cornice edittale va da 1 a 5 anni di reclusione (in luogo dell’arresto fino a due anni), vengono eliminate le “valutazioni”, i fatti materiali non rispondenti al vero devono avere il requisito della rilevanza, la loro esposizione deve essere consapevole (è qui chiaro l’intento del legislatore di escludere il dolo eventuale) e la condotta deve essere concretamente idonea a indurre gli altri in errore. L’elemento soggettivo richiesto è il dolo specifico, dunque viene rimosso il riferimento alla volontà di ingannare i soci e il pubblico presente nella disposizione originaria.
Con l’art. 2622, invece, si è inteso disciplinare il fenomeno delle false comunicazioni delle società quotate, con l’unica differenza apprezzabile rispetto all’articolo precedente da rilevarsi nella più aspra cornice edittale, dai 3 agli 8 anni di reclusione.