In data 31 maggio 2017, con la sentenza n. 27394 la II Sezione Penale della Corte di Cassazione si è pronunciata sul delicato tema del contributo causale che il soggetto partecipe ad associazioni per delinquere di tipo mafioso debba apportare affinchè gli possa essere mosso un addebito tale da configurare gli estremi dell’art. 416-bis c.p.
Nella caso di specie, i ricorrenti avevano addotto come comune motivo di censura che “non avrebbero potuto essere condannati per il delitto di cui all’art. 416 bis cod. pen. in quanto la pubblica accusa e, quindi, entrambi i giudici di merito, non avevano fornito alcuna prova su quale ruolo essi avrebbero svolto all’interno dell’associazione mafiosa e, quindi, quale era stato il contributo causale che essi avevano dato alla suddetta associazione.” La Corte di Cassazione, dunque, pone in essere l’analisi di un duplice orientamento sul tema, il quale si concreta in un vero e proprio contrasto d’opinione all’interno della Corte stessa.
Secondo un primo orientamento, cui viene associata la denominazione di tesi causale, affinchè possa essere integrata la condotta di partecipazione all’associazione di tipo mafioso non è sufficiente il semplice inserimento nella stessa, bensì occorre la prova che l’affiliato abbia dato un contributo apprezzabile al rafforzamento del sodalizio criminale, un qualsiasi apporto che valga come indicatore del pieno e consapevole coinvolgimento nella vita e nell’attività dell’associazione.
Secondo un altro orientamento, maggioritario e largamente condiviso, ai fini dell’integrazione della condotta di partecipazione all’associazione di tipo mafioso non è necessario che ciascuno dei membri del sodalizio compia specifici atti esecutivi della condotta criminosa programmata, dal momento che il contributo del partecipe può essere costituito anche dalla mera dichiarazione di adesione all’associazione da parte di un individuo che sposi la causa criminale dando la propria disponibilità (con la cd. “messa a disposizione“) ad agire in qualità di “uomo d’onore”. Questa qualità, pur non essendo indicativa di una adesione morale passiva ed improduttiva di effetti al sodalizio mafioso, ha come presupposto la “permanente ed incondizionata” offerta di contributo, anche materiale, in favore di esso, con totale sacrificio di qualsivoglia energia, risorsa o mezzo per la realizzazione di qualsiasi impiego criminale richiesto. L’obbligo assunto in tal modo rafforza il proposito criminoso degli altri associati ed accresce le potenzialità operative e la capacità di intimidazione ed infiltrazione nel tessuto sociale del sodalizio. A questa tesi è stato attribuito il nome di modello organizzatorio.
Gli ermellini hanno chiarito, all’interno della sentenza, che l’adesione della Corte a quest’ultimo orientamento deriva da una preliminare analisi del reato in esame sia dal punto di vista strutturale che dal punto di vista della lesione del bene protetto. Se dal primo punto di vista il suddetto reato si può classificare come un reato a forma libera e di pura condotta, dal momento che si perfeziona con il compimento di una determinata azione, ovvero con l’entrare a far parte di un’associazione, sotto il secondo profilo esso può essere qualificato come reato di pericolo presunto. La principale caratteristica di questo tipo di reati consiste nella repressione di una condotta che – secondo la valutazione prevista dal legislatore, non suscettibile di smentita o di prova contraria – è idonea già di per sé a mettere in pericolo un determinato bene giuridico meritevole di tutela aprioristicamente, a prescindere dalla sua concreta lesione.
Dunque, se la semplice partecipazione all’associazione costituisce un reato di pericolo presunto perché mette in pericolo per sua stessa natura l’ordine pubblico, ecco spiegato il motivo per il quale il legislatore non ha richiesto che la partecipazione abbia una particolare connotazione sotto il profilo causale: infatti, una previsione del genere significherebbe trasformare il reato di partecipazione all’associazione per delinquere di stampo mafioso da reato di pericolo presunto in un reato di evento, con conseguente necessità di provare il nesso causale fra quella condotta (la partecipazione) ed il rafforzamento del sodalizio criminale (l’evento).
Inoltre, la tesi causale finisce per sovrapporre la condotta di associazione (intesa come il disvalore connesso al ruolo ricoperto nell’ambito associativo) con le attività dell‘associazione, ovvero la condotta c.d. dinamica. Infatti, l’aver assunto un ruolo all’interno dell’associazione integra una condotta distinta e separata dalle attività dirette ad esercitare concretamente tale funzione in vista dei singoli obiettivi di volta in volta programmati (commissione di reati di scopo).
Da qui, dunque, la scelta dei giudici della Corte di propendere per la tesi del cd. modello organizzatorio: essi rimarcano che la qualità di “socio” che si va a ricoprire al momento dell’ingresso nel sodalizio criminale costituisce ex se una condotta criminale tipica e dunque passibile di sanzione, dal momento che già il mero ampliarsi della compagine associativa, anche solo di una unità, rappresenta un contributo al suo rafforzamento.