La massima.
“La dizione normativa dell’aggravante di cui all’art. 61, comma primo, n. 10, cod. pen., riferita al fatto commesso “contro” e non solo “ai danni” di un ministro di culto, impone una lettura oggettivizzante, in base alla quale la qualifica di sacerdote del soggetto passivo, per essere rilevante ai fini della configurabilità dell’aggravante, deve aver determinato o concorso a determinare l’azione aggressiva del soggetto attivo. (Fattispecie in tema di truffa ai danni di un sacerdote, in cui l’imputato aveva ceduto banconote false per ottenere in cambio il corrispondente valore delle monete disponibili lasciate al sacerdote dai fedeli)”.
Il caso.
Il caso trae origine da una particolare vicenda sviluppatasi in Sicilia, in cui un parroco, bisognoso di cambiare oltre 500 euro in monete, frutto delle donazioni dei fedeli, con più maneggevoli soldi di carta, chiedeva aiuto ai suoi conoscenti.
A farsi avanti l’imputato, peraltro in stato di detenzione domiciliare, che cedeva al sacerdote banconote false per ottenere in cambio la corrispondente somma in monete, pari a 510 euro.
La Corte d’Appello di Messina, con pronuncia del 14.10.2019, confermava la condanna emessa dal Tribunale di Messina il 20.9.2018 a carico di Ro. Sc. per i reati di evasione, truffa e messa in circolazione di monete false, questi ultimi commessi ai danni di A. G., parroco della chiesa di Madonna del Porto Salvo di Santa Teresa di Riva, confermando, peraltro, tutte le aggravanti, compresa quella di cui all’art. 61, comma primo, n. 10, cod. pen., tranne quella di cui di cui all’art. 61, comma primo, n. 11-quater, cod. pen., in relazione alla cui esclusione, parzialmente riformando la sentenza di primo grado su tale punto, ha anche rideterminato la pena finale, modulandola nella misura di anni tre e giorni 20 di reclusione, oltre Euro 400 di multa.
Rilevante l’applicazione dell’aggravante prevista per avere agito contro un ministro del culto cattolico, su cui il difensore dell’imputato fonda il suo ricorso in Cassazione, sostenendo che «la condotta di reato non era collegata all’esercizio del culto, benché il denaro provento della truffa era riferibile, secondo il sacerdote, alle offerte dei fedeli e destinato a favore di alcuni parrocchiani».
La motivazione.
La Corte evidenzia la necessità che la condotta criminosa sia diretta contro la persona del soggetto che riveste la qualità di ministro del culto, con l’intenzione di vulnerarne l’integrità morale, nonchè che l’offesa debba avere una “peculiare coloritura”, essendo volta a ledere e svilire i valori propri della funzione professata dalla vittima, richiamando un precedente pronunciamento sul punto. (Sez. 2, n. 673 del 5/12/1955, dep. 1956).
Dunque, con specifico riguardo all’aggravante di cui all’art. 61 co. 1 n.10, l’avverbio “contro”, usato quale termine di discrimen del più comune “in danno”, ha la funzione di circoscrivere l’applicazione dell’aggravante, sotto il profilo soggettivo, ai soli reati dolosi in ragione della necessaria conoscenza della funzione svolta dalla vittima, e, sotto il profilo oggettivo, a tutte le condotte che constano nell’aggressione alla persona, ora nel fisico, ora nel “portato morale”, più elevata espressione dell’incarico, funzione o missione espletata e del ruolo che di conseguenza riveste, a prescindere dagli effetti dannosi che tale condotta può aver generato.
Pacifica l’applicazione della ridetta aggravante ogni qual volta, indi, l’offesa risulti diretta contro la persona in ragione della istituzione, sovrana o religiosa, che la stessa rappresenta e che tale qualità debba causare o concorrere a causare il reato.