24 Marzo 2025
24 Marzo 2025

Cass. Pen., Sez. III, 21 aprile 2021, n. 15042 sul sequestro probatorio nel caso di vendita di mascherine con marchio CE contraffatto

sentenza

La massima

“Il tentativo di frode nell’esercizio del commercio non richiede, ai fini della sua configurabilità, l’effettiva messa in vendita del prodotto, essendo sufficiente l’accertamento della destinazione alla vendita del prodotto diverso per origine, provenienza, qualità o quantità da quelle dichiarate o pattuite” (Cass. Pen., Sez. III, n. 15042 del 21.04.2021).

Il caso

Con la pronuncia in esame, la Suprema Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso di un indagato avverso il sequestro probatorio di molteplici dispositivi medici chirurgici di cui era in possesso.

Le mascherine in questione erano prive di regolare ordinaria documentazione, anche per la messa in commercio e recavano un marchio CE contraffatto.

Precisamente, il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, adito nell’interesse dell’indagato avverso il decreto di sequestro probatorio di un grande quantitativo di mascherine, confermava il provvedimento impugnato.

Avverso la pronuncia del Tribunale, proponeva ricorso l’indagato, mediante il proprio difensore, deducendo tre motivi di doglianza.

Con il primo motivo, si lamentava la violazione dell’art. 606 co. 1 l. b) ed e) c.p.p., per inosservanza ed erronea applicazione della legge penale e carenza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione. Secondo il difensore, il Tribunale non aveva preso in considerazione che i dispositivi sequestrati erano stati consegnati all’indagato solo la sera precedente al sequestro, così da non poter richiedere – in tale esiguo lasso di tempo – la validazione INAIL, con evidenti ripercussioni in punto di (in)sussistenza dell’elemento psicologico del reato in capo al ricorrente, il quale aveva effettuato l’acquisto nella convinzione che i beni avessero i requisiti necessari; ad ogni modo, si segnalava altresì che l’indagato ben avrebbe potuto mettere in commercio le mascherine senza dicitura “dispositivo medico di protezione”, non essendo ancora state offerte in vendita.

Con il secondo motivo, si rappresentava vizio ex art. 606 co. 1 l. e) c.p.p., per illogicità e contraddittorietà della motivazione in relazione all’art. 515 c.p., atteso che il delitto si consuma solo in caso di consegna “aliud pro alio”, mentre nel caso di specie non sarebbe ipotizzabile, a dire della difesa, neppure il tentativo.

Con il terzo motivo, il difensore rappresentava vizio ex art. 606 co. 1 l. e) c.p.p., in relazione agli artt. 56 e 515 c.p., in quanto risulterebbe erronea la presunzione della destinazione alla vendita delle mascherine sequestrate, desunta dalla circostanza del rinvenimento di un numero di dispositivi inferiore a quello acquistato, da ritenersi dunque già venduto. Infatti, le mascherine avrebbero potuto essere vendute con la specifica che non si trattasse di DPI, e, comunque, in base alla documentazione sequestrata le mascherine in vinculis sarebbero state le prime consegnate tra quelle acquistate dall’indagato.

Con il quarto motivo, infine, il difensore denunciava il vizio ex art. 606 co. 1 l. e) c.p.p., in relazione agli artt. 56 e 515 c.p., per motivazione illogica, contraddittoria e fondata su un errore nell’interpretazione della legge, atteso che il D.L. 17.3.2020 non prevede la necessità di sottoporre i dispositivi in questione a marcatura CE.

 

La motivazione

La Suprema Corte, con la sentenza in esame, dichiara inammissibile il ricorso, svolgendo alcuni rilievi degni di nota.

Analizzando congiuntamente i quattro motivi esposti nell’atto di impugnazione, rileva come il dato storico, dato dal sequestro di dispositivi medici del tipo mascherine chirurgiche, prive di regolare ordinaria documentazione e recanti marchio CE contraffatto, sia acclarata dagli atti di indagine, che attestano anche la mancanza di documentazione che renderebbe suddette mascherine idonee alla messa in commercio, come prevista in via derogatoria dal D.L. del 17.3.2020. Il Tribunale, pertanto, riteneva sussistente il fumus del reato di cui agli artt. 56 e 515 c.p., considerando che le mascherine in esame si presentavano quali dispositivi medici di protezione corredate soltanto da una falsa certificazione CE, idonea a trarre in inganno sulla conformità del dispositivo agli standard europei. Di più, il Tribunale riteneva altresì che le mascherine dovessero senza dubbio ritenersi destinate alla vendita, in ragione dell’intervenuto rinvenimento di un quantitativo inferiore rispetto alle centomila acquistate dall’indagato, così da ritenersi che molte di esse fossero già state vendute.

Dal punto di vista fattuale, dunque, la motivazione del Tribunale dà atto di circostanze obiettive che attestano l’esistenza di beni aventi differenti caratteristiche rispetto a quelle apparenti e pattuibili, e della loro destinazione alla vendita.

Secondo la Suprema Corte, la cristallizzazione del fatto storico risulta idonea ad essere ricondotta nella fattispecie delittuosa individuata dagli artt. 56 e 515 c.p., atteso che il tentativo di frode nell’esercizio del commercio non richiede, ai fini della sua configurabilità, l’effettiva messa in vendita del prodotto, essendo sufficiente l’accertamento della destinazione alla vendita del prodotto diverso per origine, provenienza, qualità o quantità da quelle dichiarate o pattuite.

Ad avviso della Cassazione, nel provvedimento impugnato non può essere mossa alcuna contestazione, alla luce del corretto inquadramento giuridico e della presenza di una compiuta motivazione in ordine ai fatti in contestazione.

Da ultimo, la Corte ribadisce la perpetrazione del proprio controllo sul fatto storico, atteso che lo stesso è, come noto, limitato ai soli profili della violazione di legge. Dunque, la verifica in ordine alle condizioni di legittimità della misura cautelare risulta ontologicamente sommaria e non comporta un accertamento sulla fondatezza della pretesa punitiva e sulle eventuali difformità tra la fattispecie legale e caso concreto, demandate ai Giudici di merito, se non rilevabili ictu oculi.

Sulla base delle considerazioni indicate, la Corte ritiene che il ricorso vada dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente di sostenere le spese del procedimento.

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