19 Marzo 2025
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Ancora sulla natura processuale dell’improcedibilità: Cass. Pen., Sez. V, 10 gennaio 2022 (ud. 5 novembre 2021) n. 334.

sentenza

La Corte di Cassazione, pochi giorni fa, ha nuovamente affrontato una questione di legittimità costituzionale sollevata in ordine all’istituto dell’improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione.

In particolare, il ricorrente, imputato per reati fallimentari, censurava il regime transitorio di cui alla Legge di riforma, nella parte in cui prevede la retroattività della disposizione in esame per i soli reati commessi a far data dal 1 gennaio 2020. Tale previsione, ad avviso dell’imputato, si sarebbe posta in contrasto con gli artt. 3 e 117 Cost., determinandosi, altresì, una lesione del principio del favor rei.

La difesa, pertanto, riteneva che il nuovo art. 344 bis c.p.p. avesse natura sostanziale e dunque necessitasse di un’applicazione retroattiva più estesa, sempreché in concreto più favorevole secondo il noto principio della retroattività della lex mitior.

Ponendosi nel solco di quanto già affermato da un primo precedente di legittimità[1], la Corte non accoglie l’eccezione di illegittimità costituzionale prospettata dalla difesa.

Nel disattendere la tesi del ricorrente, i Giudici offrono un’articolata motivazione circa la natura giuridica dell’istituto di cui all’art. 344 bis c.p.p.

Secondo gli Ermellini, infatti, vi sarebbero plurimi fattori che farebbero propendere per la natura processuale dell’istituto:

  • La dichiarata finalità perseguita dall’introduzione dell’art. 344 bis c.p.p. (volto alla celere definizione della durata dei giudizi di impugnazione);
  • La collocazione sistematica della norma in commento nel codice di rito;
  • L’incidenza dell’istituto non già sull’esistenza del reato, bensì sulla sola prosecuzione dell’azione penale;
  • La conseguente applicabilità del principio “tempus regit actum”, fatta salva la parziale deroga prevista dall’art. 2, comma 3, della Legge riformatrice.

Si aggiunge, peraltro, come la norma tacciata di incostituzionalità non possa neppure essere ritenuta irragionevole, atteso come la prevista retroattività della stessa per reati commessi a far data dal 1 gennaio 2020 corrisponda ad una finalità riequilibratrice (segnatamente, la necessità di disinnescare la portata della “Riforma Bonafede”); mentre antecedentemente a tale data non opererebbe il “blocco” della prescrizione di cui alla Legge n. 3/2019.

In conclusione, la Suprema Corte non ritiene meritevole di accoglimento la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla difesa dell’imputato e giunge ad affermare in modo netto la natura processuale del nuovo istituto.

[1] Cass. Pen., Sez. VII, Ord. 28 novembre 2021 (ud. 19 novembre 2021), n. 43883

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