La tormentata figura dell’abuso d’ufficio ex art.323 c.p., fin dalla sua origine, è stata oggetto di molteplici riflessioni e formulazioni, tanto da acquisire con il tempo un vero e proprio carattere di instabilità. Emerge infatti, con notevole frequenza, tra gli innumerevoli temi controversi e più dibattuti tra dottrina e giurisprudenza proprio quello di riconsiderare nel campo dei reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione il fondamentale quesito dei limiti in cui la sostanziale applicazione della norma penale si sottragga ad una ingerenza del giudice penale nell’attività amministrativa, soprattutto a contenuto discrezionale, nel costante tentativo di fronteggiare il fenomeno della c.d. «amministrazione difensiva».1
La ricorrente preoccupazione di un utilizzo improprio di tale strumento, come pretesto per avviare inchieste sulla base di labili sospetti che si rivelano frequentemente privi di reale giustificazione, ha condotto ad un risultato, comprovato da dati statistici, 2che manifesta e non lascia dubbi sul notevole scarto che sussiste tra procedimenti iscritti e condanne effettive.
Orbene, tale esigenza di restringere la «valvola» del delitto de quo, in coesione con il c.d. principio di determinatezza, ha condotto ad una serie di vicende modificative accomunate dalla finalità collettiva, ad eccezione della riforma del 2012 n.190, di circoscriverne l’ambito applicativo.
Era prassi consolidata che, nello scrutinio del giudice di merito sulle iniziative della P.A., l’ipotesi di abuso d’ufficio veniva, non di rado, adoperata dalla magistratura inquirente come «grimaldello per tutte le porte dell’amministrazione»3 fungendo da «reato civetta»4 per accertare differenti ipotesi di reato più gravi, quali la corruzione e la concussione.
L’ultimo approdo di riforma avvenuto con il d.l. 16 luglio 2020, n.76 convertito in L. 11 settembre 2020, n.120 c.d. «Decreto Semplificazioni»,5 ha inciso nel senso di un mutamento della littera legis dell’art.323 c.p. che non fa più riferimento alla generica «violazione di norme di legge o di regolamento» bensì alla «violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità»: è pacifico dunque considerare che, se la condotta che scaturisce la responsabilità del pubblico funzionario è connotata dalla violazione di regole cogenti che non lasciano alcun margine residuo discrezionale, di conseguenza l’ambito applicativo appare manifestamente più circoscritto. Da ciò ne deriva una riduzione della sfera di apprezzamento del giudice penale non soltanto in relazione all’inosservanza dei principi generali di buon andamento, ma anche nei casi di violazione di fonti normative di tipo regolamentare.
L’art.323 c.p., così riformato, ha finito per mutare anche le fattispecie ad esso riconducibili che hanno generato alcune questioni di diritto intertemporale.
La sentenza della Cassazione pen., sez.VI n.442/20216 (dello scorso 8 gennaio) si è posta come fine quello di affrontare il profilo del controllo penale sulla discrezionalità amministrativa. I giudici di legittimità hanno rilevato come la «limitazione di responsabilità penale del pubblico funzionario qualora le regole comportamentali gli consentano di agire in un contesto di discrezionalità amministrativa, anche tecnica» è da ritenersi lineare nel caso di scelta di un interesse primario pubblico da perseguire in concreto. D’altro canto, si avrebbe configurabilità del novellato abuso d’ufficio nel caso in cui l’esercizio del potere discrezionale «non trasmodi tuttavia in una vera e propria distorsione funzionale dai fini pubblici – c.d. sviamento di potere o violazione dei limiti esterni della discrezionalità – laddove risultino perseguiti, nel concreto svolgimento delle funzioni o del servizio, interessi oggettivamente difformi e collidenti con quelli per i quali soltanto il potere discrezionale è attribuito».
Sic stantibus rebus, ne deriverebbe un cortocircuito logico qualora la magistratura dovesse utilizzare tale potere per valutare in modo negativo e con ampio spettro l’uso discrezionale del potere da parte della P.A., vanificando lo sforzo del legislatore ed operando inevitabilmente un «throwback» alla precedente disciplina che con il dettato «norme di legge o di regolamento» consentiva di sindacare anche su un eventuale cattivo uso della discrezionalità, come «corvo per l’abbordaggio di ogni tipo di violazione».7
Il Supremo Consesso ha evidenziato come a seguito del decreto semplificazioni si sia giunti ad una parziale «abolitio criminis» delle condotte precedenti alla riforma attraverso un triplice aspetto:
- attività amministrative che possiedono margini di discrezionalità ;
- attività amministrative che siano state compiute violando norme «generali ed astratte»;
- attività amministrative compiute in violazione di norme regolamentari.
Sul concetto di «parziale abolitio criminis» non è tardata a pronunciarsi la dottrina che, nel tentativo di ridurre la portata innovativa della riforma del 2020, ha mosso alcune riflessioni.8
In primis, si allude alla possibilità di utilizzare il concetto di «omessa astensione » come «escamotage » per ricondurvi tutte quelle fattispecie contestate per violazione di norme regolamentari , ovvero di norme di legge prive dei caratteri della specificità e dell’assenza di discrezionalità.
In secundis, consolidata la clausola di consunzione presente nella norma in questione (« salvo che il fatto non costituisca più grave reato »), come bisognerà procedere nel caso di contestazione di un reato meno grave?
Essendo tale fenomeno, anche se parzialmente considerato, iperretroattivo, va da sé sul piano processuale una revisione di tutte le sentenze di condanna passate in giudicato cioè occorre verificare se la condanna sia stata irrogata per una delle tre ipotesi non più previste dalla legge come reato , con conseguente applicazione dell’art.2 co.2 c.p..
Ancor più recente è la sentenza del 1 marzo 2021, n.80579 con cui la Sesta Sezione della Cassazione ha affermato il principio di diritto : «è configurabile il delitto di abuso di ufficio di cui all’art. 323 cod. pen., come modificato dal d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito nella legge 11 settembre 2020, n. 120, non solo nel caso in cui la violazione di una specifica regola di condotta è connessa all’esercizio di un potere già in origine previsto dalla legge come del tutto vincolato, ma anche nei casi in cui l’inosservanza della regola di condotta sia collegata allo svolgimento di un potere che, astrattamente previsto come discrezionale, sia divenuto in concreto vincolato per le scelte fatte dal pubblico agente prima dell’adozione dell’atto (o del comportamento) in cui si sostanzia l’abuso di ufficio».
Come ricalcato già più volte nella seguente trattazione, il perno attorno al quale ruotano le recenti pronunce risiede nel concetto di discrezionalità: potere discrezionale in astratto e vincolato in concreto. In tale senso, si intende comprensivo non solo dei casi di violazione di una specifica regola di condotta connessa ad un potere del tutto vincolato dall’azione amministrativa, bensì anche ai casi riguardanti l’inosservanza di una regola di condotta collegata allo svolgimento di un potere che, in astratto è discrezionale, ma divenuto in concreto vincolato per le scelte compiute dal pubblico agente prima dell’adozione dell’atto (o del comportamento) in cui si sostanzia il delitto.
Interpretazione, quest’ultima, ritenuta in linea con l’orientamento giurisprudenziale10 sulla annullabilità degli atti amministrativi ex art.21 octies legge 241/1990 prevista anche nel caso in cui il provvedimento amministrativo consista nell’esplicazione nel procedimento di un potere da parte del pubblico agente che sia divenuto vincolato in concreto in quanto esaurito ogni spazio di discrezionalità.
Alla luce di ciò, ne deriva il risultato di una (imperfetta) riforma, con il rischio che i vuoti dovuti al drastico ridimensionamento di tale norma non finiscano per colmare fattispecie contigue.
[1]S. MASSI, Archivio penale 2019 n.1, p.2 : «Il fenomeno della forte ingerenza della giurisprudenza penale nelle scelte di merito della pubblica amministrazione si è particolarmente accentuato a partire dai primi anni Novanta, epoca meglio nota come quella della ‘tangentopoli’ italiana, periodo in cui la magistratura penale ha iniziato ad esercitare un controllo più incisivo di diversi settori della pubblica amministrazione »
[2]http://dati.istat.it/Index.aspx?DataSetCode=DCCV_CONDCRIM1
[3]Così T. PADOVANI, Commento alla L.16/7/1997-Modifica dell’art. 323 del codice penale in materia di abuso d’ufficio, in Leg. pen., 1997, 741 ss.
[4] Espressione adoperata da M. LAUDI ne Il Sole 24 ore, del 12 ottobre 1996, 23
[5]Per un maggiore approfondimento: M.E.ORLANDINI, «La riforma del reato di abuso d’ufficio » in Ius in Itinere, 7 ottobre 2020
[6]Testo sentenza:
[7]M. NADDEO, I limiti della tutela penale nell’abuso d’ufficio, in Ind. pen., 2018, 236
[8]G.L. Gatta, Riforma dell’abuso d’ufficio: note metodologiche per l’accertamento della parziale abolitio criminis, cit.
[9]Testo sentenza:
[10]Cons.Stato, n.4089/2019
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